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lettera II  a Giovanni Boccaccio

Immagine di Giovanni Boccaccio a Firenze

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LIBRO QUINTO

LETTERA II

A GIOVANNI BOCCACCIO

 

Habeo aliquid dicere

 

Lo accusa di superbia perché, stimandosi a lui inferiore nell'arte di comporre versi, gettasse i suoi nelle fiamme. Parla dei rapsodi di quella età, e deplora l'ignoranza e la corruttela dei letterati e de' falsi filosofi de' tempi suoi.

[Venezia, 28 agosto 1366]

 

 

 

Ho qualche cosa da dirti. Peccatore qual io mi sono uso così le parole del nostro Salvatore. Or che pensi e che aspetti di udire da me? Non altro che il solito. Prepara le orecchie ad una contesa, e l'animo a pazienza. Cosa per vero dire da farne le meraviglie ella è questa, che tanto siamo noi due conformi degli animi, eppure tanto soventi volte discordi negli atti e nei consigli: e poiché non con te solo, ma con altri ancora degli amici questo mi accade, cercandone fra me stesso la ragione, non altra me ne venne trovata da questa infuori, che coloro cui madre natura fatti aveva simili, fece dissimili la consuetudine, che dir si suole una seconda natura. Oh! così ci fosse stato concesso di vivere insieme: la consuetudine ci avrebbe dato in due corpi un'anima sola. Qualche gran cosa ora tu pensi ch'io sia per dirti. Ma no: è cosa da nulla: e ben da nulla devi tu crederla, se tale la giudico io che ne sono l'autore: perocché suole ciascuno le cose proprie tenere in gran conto, ond'è che nessuno dell'opera sua è giusto giudice, e tutti dall'amor di se stessi si lasciano trarre in inganno.

Te solo per avventura fra mille io conosco, cui non l'amore, ma l'odio e il disprezzo delle cose proprie falsi il giudizio; se pure non io m'inganno stimando nascere da umiltà quello che da superbia procede: e perché tu meglio m'intenda, ecco mi spiego. Tu ben conosci quella razza di uomini divenuta a dì nostri volgare tanto e comune da non poterne scansare il fastidio, i quali campano la vita andando intorno, e ripetendo parole altrui. Dotati di scarso ingegno, ma di buona memoria, pieni di accortezza, ma più di audacia, si aggirano per le corti dei Grandi e dei Re, e nulla recando del proprio, ma facendosi belli de' versi altrui, quanto di meglio seppero procacciarsi scritto da questo o da quel Poeta, specialmente nel materno idioma, vanno declamando con artifizio di molta espressione, e dai Signori ne hanno in ricambio favore, danari, vestimenta, ed altri regali de' così fatti. I versi che son per essi mezzo di guadagnarsi la vita, vanno chiedendo or ad uno, ora ad un altro, e spesso dagli autori stessi ottengono, talora per preghiera, tal altra a prezzo, se questo si esiga dalla, avidità o dalla povertà di chi glie li vende: del quale ultimo caso allega un esempio il Satirico là dove dice: se a Paride non vende L'intatta Agave sua, muore di fame.

Or come credo che ad altri sia molte volte avvenuto, così a me sovente costoro si rendono cortesemente importuni: sebbene ora lo facciano assai più di rado, vuoi per gli studi diversi a cui mi son dato, vuoi per riverenza all'età mia, e forse ancora per le ripulse che s'ebbero da me. Imperocché molte volte, ad impedire che si assuefacciano ad infastidirmi, recisamente rispondo del no, e non mi lascio rimuovere da qualunque preghiera: ma qualche altra volta, specialmente se conosco esser chi chiede umile e miserabile, un affetto di carità mi sprona ad usare l'ingegno in pro loro, porgendo un aiuto che per lungo tempo provvede al sostentamento di chi lo riceve, e a me non arreca in fin de' conti che il fastidio di una brevissima occupazione. E ve ne furono alcuni, che venutimi innanzi poveri e nudi, e da me fatti paghi del loro desiderio, indi a non molto tornarono vestiti di seta, e ben provvisti e fatti ricchi, ringraziandomi che per opera mia erano riusciti a sollevarsi da quell'umile stato di abiezione; ed io ne fui per modo commosso, che stimando esser quella un'elemosina, feci proposto di più non negarla ad alcuno, e lo mantenni, finché, venutomi di nuovo a noia, mi rimisi in sul niego.

Avendo io pertanto ad alcuno di costoro mandato, perché sempre a me e non ad altri, e specialmente a te rivolgessero le loro preghiere, mi risposero che più di una volta vi si erano provati, senza averne per altro mai nulla ottenuto: di che facendo io le meraviglie, o dicendo di non intendere come un uomo per natura generosissimo, si mostrasse tanto avaro di poche parole, soggiunsero quelli aver tu dato alle fiamme tutti i versi che scritti avevi in lingua volgare. Più che mai meravigliato chiesi il perché di cotesto tuo fatto, né fu chi potesse addurmene ragione da un d'essi in fuori, che disse di aver sentito, o di stimare egli stesso, che tu fatto ormai maturo degli anni, e già canuto, abbi in animo di dar nuova forma a quei componimenti, che nella prima adolescenza, e nella giovinezza avevi dettati. Parve veramente a lui, non meno che a me da questo tuo proposto chiarirsi in te una fiducia di vivere a lungo, che fatta pure ragione della tua robustezza, e della prudenza tua, non può non dirsi soverchia, specialmente in questa razza di tempi. Ma quello onde io più meravigliava, si era lo strano partito di bruciare gli scritti che volevi correggere. E come correggere quel che più non esiste?

E lungo tempo io così mi rimasi stupefatto di quanto aveva udito, ma venuto poi in questa città, e familiarmente trattenendosi ogni giorno con me il nostro Donato che tanto ti ama, e tanto ti è devoto, cadde il discorso su tal proposito, e da lui la cosa che già sapeva mi fu confermata, e me ne fu svelata l'ignota cagione. Perocché egli mi disse, come tu fin dai primi anni tuoi assai ti fossi dilettato della volgare poesia, molto spendendovi intorno di tempo e di studio, finché fra le tante e svariate tue letture essendoti abbattuto negli scritti miei giovanili, sentisti ad un tratto raffreddare l'ardore che a te le dettava, né ti bastò l'astenerti dal più comporne, ma le già composte prendesti a schifo per modo, che tutte le gettasti alle fiamme, né già con animo di rifarle, e correggerle, ma per distruggerle al tutto, e te non meno che i posteri frodasti del frutto di tante fatiche, solo perché le stimasti inferiori di pregio alle mie. Pazzo cotesto odio, irragionevole cotesto incendio: lo dico io, e nessuno dubiterebbe di dire il medesimo. Quello però che io non saprei con certezza definire si è se ciò proceda da umiltà d'animo che se stesso dispregi, o da superbia d'uomo che voglia essere agli altri superiore.

Tu che ti leggi nel cuore, fa' ragione di te stesso; io fra me medesimo, siccome soglio, quasi che teco parlassi così la discorro. Che tu ti tenga per tua sentenza da meno di coloro che son da meno di te sta bene, te ne lodo, e mi piace questo errore assai più di quello, per cui chi veramente è al di sotto di un altro, se ne stima al di sopra. E qui mi sovviene di un passo di Lucano da Cordova, poeta che fu d'ingegno fervido, e di spiriti ardenti, i quali, come sollevare ad alta mèta, così agevolmente possono spingere a grande precipizio. Or giovane ancora, vedendo egli che molto aveva profittato negli studi, fatta ragione dell'età sua, e della carriera che onoratamente incominciava a percorrere, e vanitoso del plauso che riscuotevano le opere sue, osò paragonarsi a Virgilio, e recitando una parte del poema sulla guerra civile, che impedito dalla morte non poté poi trarre a fine, si lasciò uscire un giorno di bocca: E che mi manca per agguagliare il Culice?

Alla quale arrogante domanda, io non so se, e qual risposta desse allora alcuno degli amici; quanto a me so, che appena l'ebbi letta, sdegnosamente a quel superbo risposi: Fino al Culice, amico, te lo concedo: ma dalla Eneide tu sei lontano le mille miglia. Ben è dunque ragione che più da me si apprezzi quella umiltà per cui tu ti stimi a me inferiore, che non la iattanza di colui il quale osava mettersi accanto, e forse anche innanzi a Virgilio. Ma un'altra cosa io qui voglio dirti, la quale per avventura è sì sottile, che malagevole mi sarà l'esprimerla: pure mi ci proverò. Io temo, amico, che cotesta tua singolare umiltà, sia un'umiltà superba. E poiché potrebbe a taluno, non che nuovo, sembrare assurdo questo epiteto di superba dato all'umiltà, per non offendere colla contraddizione le orecchie, spiegherò in altro modo il mio pensiero.

Temo che ad una così grande umiltà si mesca alcun che di superbia. Accadde a me di vedere talvolta in un convito, o in un'adunanza, alcuno, cui non venne sortito un posto abbastanza onorifico, alzarsi subitamente da quello, e sedersi spontaneamente nell'ultimo, in apparenza di umiltà, ma veramente per stimolo di superbia: ed altri vidi recisamente andarsene, il che sebbene si paia indizio di animo mansueto, pur veramente procede da stizza e da superbia, quasi che chi non ottenne il primo posto, il quale esser non può mai più di uno, non debba averne nessuno, o averne l'ultimo. Eppure i gradi della gloria esser debbono diversi come quelli del merito. Or di te ragionando, e' si conviene riconoscere che solo per umiltà tu non ti arroghi il primo posto, mentre molti, che per ingegno e per dottrina sono ben lungi dal potersi agguagliare a te, avendo osato sperarlo od ambirlo, soventi volte ci mossero il riso e la bile, quantunque sospinti fossero dal suffragio del volgo, dal quale non solo il foro, ma il Parnaso eziandio pur troppo riceve danno gravissimo.

Ma che tu non ti acconci al secondo posto od al terzo, scusami, e' mi pare nascere in te da vera superbia. Imperocché l'averti tanto a male d'esser posposto a me (che mi terrei a vanto di poterti essere uguale) o a quel principe primo del nostro volgare, e del vederti così preferiti uno o due, e specialmente de' tuoi concittadini, e qualunque e' si siano, certamente pochissimi, scusami se te lo ripeto, ciò mi sa di superbia più che il pretendere all'assoluto primato su tutti. Conciossiaché l'agognare all'eccellenza, può credersi effetto di spirito magnanimo: ma il soffrire a malincuore l'essere agli eccellenti vicino, è proprio al certo di mente superba. Mi vien detto che quel vecchio da Ravenna, in siffatta materia giudice assai competente, quando di tali cose ragiona, a te suole assegnare il terzo posto: se questo ti par poco, se credi che io ti tenga lontano dal primo, il che non faccio, ecco ti cedo il passo, e libero a te lascio il secondo posto: ma se rifiuti ancor questo, non te la perdono. Se soli i primi fossero illustri, vedi bene quanti si rimarrebbero nell'oscurità, e quanto pochi sarebbero a cui giungesse un po' di luce. Considera dappoi esser dei primi i secondi posti più sicuri e più utili. Se hai chi ti vada innanzi, avrai pure chi in sé riceva i primi colpi dell'invidia, chi arrischiando la propria fama ti segni il cammino che devi battere, di cui sull'orme tu possa evitare i pericoli, e mettere il piede in sicuro, chi te col proprio esempio ecciti e scuota, cui tu ti sforzi a raggiungere, a sorpassare, sì che non sempre te lo veda d'innanzi.

E questi ad anime generose sono stimoli che molte volte riuscirono ad ammirandi successi. Imperocché ben egli è facile ad avvenire che chi del secondo posto fu pago, presto si faccia degno di ascendere al primo: laddove già del secondo comincia a dimostrarsi immeritevole chi avendolo sortito, non stette ad esso contento. Scorri colla memoria i nomi de' più famosi fra i capitani, fra i filosofi, fra i poeti, e a mala pena ti verrà fatto trovarne pur uno, cui quegli stimoli non aiutassero a raggiunger l'altezza alla quale pervenne. Dall'esser primi quasi tutti ebbero sempre frutto di superbia in se stessi, d'invidia dagli altri, e in molti s'ingenerò la pigrizia. Tanto all'amante, quanto allo studioso, l'invidia serve di stimolo. Langue senza rivali l'amore, la virtù senz'emuli: val più il povero industrioso, che il ricco inerte: meglio è vegliare infiammato dal desiderio di tentar grandi cose, di quello che marcire turpemente oppresso dal sonno; ed è più savio e più sicuro partito l'aiutarsi con opere di virtù, che il riposarsi ozioso all'ombra di un'acquistata celebrità. E tanto basta, mi pare, perché tu non debba avere a vile un secondo posto. E se fosse il terzo, e se il quarto? Né monterai in collera? Hai tu dunque dimenticato quel passo di Anneo Seneca ove contro il parere di Lucilio prende a difendere Fabiano Papirio, al quale avendo messo innanzi Marco Tullio, e non è già, soggiunse, piccola cosa l'esser da meno di chi è più grande di tutti: quindi avendo anteposto Asinio Pollione è pure, disse, uno star molto avanti lo star dopo soli due; finalmente a quelli avendo aggiunto anche Tito Livio, or vedi, esclamò, a quanti vada innanzi chi preceduto è da tre soli, e tre nell'eloquenza sovrani.

Or fa' tu, amico, le tue ragioni, e vedi se queste cose medesime a te non calzano per l'appunto: tenendo fermo però che qualunque posto ti tocchi in sorte, io non mi penso poter essere uno fra quelli che ti precedono. Lascia dunque di dare esca alle fiamme, e porgiti più indulgente a' versi tuoi. Ma se per avventura a te o ad altri paresse mai che io, voglia o non voglia, ti sia in questa spezie di scritti superiore, vorrai tu avertelo a male, e recarti a vergogna il venire accanto a me? Perdonami, ch'io te lo dica: ma se ciò tu fai, m'ingannasti finora, né quale a me si parve è la tua modestia, né l'amor tuo verso me, quale io lo sperai. Conciossiaché sogliono i veri amanti di buon grado posporsi a quelli che amano, desiderare che quelli li vincano, e dell'esser vinti da loro prendere singolar compiacenza. Qual è mai padre amoroso che non si piaccia nello scorgere a sé superiore il figliuolo? Sperai un giorno, né cesso ancora di sperarlo, di essere a te non dirò già più di un figlio, ma caro più di te stesso, e che più del tuo, caro a te fosse il nome mio, e ben mi ricordo che questo già da dolce amichevole sdegno commosso tu medesimo mi dicesti. Or se sincero allora parlavi, me dovevi con gioia vedere andarti innanzi, né ritirarti dal corso, ma più seguirmi d'appresso, e studiare il passo perché nessuno di quelli che battono la stessa via s'inframettesse fra noi, e a te rapisse il tuo posto: ché passeggiando o sedendo insieme coll'amico, non cura l'amico di esser primo o secondo, ma cerca solo di stargli vicino. Nulla è più dolce che lo starsi d'accanto: l'amore è tutto: nulla è la precedenza in fra gli amici: son primi gli ultimi, ultimi i primi, perché tutti insieme sono sola una cosa.

Fin qui ho parlato accusandoti, ora mi accingo a difenderti: conciossiaché, sebbene la tua confessione, ed il racconto che me ne fece l'amico tornino a tua colpa, io voglio provarmi a cercare del fatto una qualche diversa e più generosa cagione: potendo un atto stesso, secondo che diversa è la intenzione di chi lo commette, esser degno di lode o di vitupero. E dirò aperto il mio pensiero. Non già per impeto di arroganza, che alla tua mite natura punto non si conviene, né per invidia a chicchessia, né per impazienza della tua sorte, volesti tu distruggere gli scritti tuoi, ché a te stesso, ed a quelli avresti fatto per tal modo irragionevole ingiuria; ma da nobile e generosa indignazione commosso contro l'età nostra vana e superba che nulla intende, tutto guasta, e per colmo di iniquità tutto disprezza, sottrarre tu volesti al suo giudizio il tuo ingegno, e come un giorno col ferro Virginio la figlia, così tu i bei trovati della tua mente figli dell'animo tuo col fuoco ponesti in salvo da vergognoso ludibrio. Or che ne dici? Non ho forse colto io nel segno? Anch'io talvolta (e quindi appunto argomentando trassi or ora la mia congettura) delle mie poche volgari poesie ebbi nell'animo di fare lo stesso, e forse fatto lo avrei, se tanto non si fossero già divulgate, che fuggitemi di mano, da gran tempo aveva io perduto la facoltà di disporne.

Eppure una volta, tutto all'incontrario pensando, io m'era proposto di consacrarmi interamente a questo studio del volgare per la ragione che nel più nobile sermone latino hanno gli antichi con tanta perfezione trattata la poesia da togliere a noi ed a chiunque altro ogni speranza di fare qualche cosa di meglio, laddove il volgare nato da poco, strapazzato da molti, e da pochissimi coltivato, capace si porge di molti fregi, e di nobilissimo incremento. Animato da questa speranza, e punto dagli stimoli della giovinezza, già m'era proposto in questa lingua un grandioso lavoro, e gettate quasi le fondamenta dell'edificio, le pietre, la calce, e le legna per innalzarlo aveva apparecchiato: ma ponendo mente alla superba incuranza dell'età nostra, io mi feci a considerare di qual tempra fossero gl'ingegni che avrei per giudici, e quale la grazia della loro pronunzia, che diresti non recitare, ma di smembrare, e dilaniare gli scritti. Or questo avendo udito una volta, indi un'altra, ed un'altra e sempre peggio, fatte ben meco stesso le mie ragioni, alla fine fui persuaso che a fabbricar sul padule e sull'arena, si perde il tempo e la fatica, e che la povera opera mia andrebbe ad essere fra le mani del volgo miseramente lacerata. E come viandante che nel mezzo del corso vede la strada attraversata da schifoso serpente, ristetti ad un tratto, e mutato proposto mi appresi, siccome spero, a più nobile consiglio: che se più non posso dai denti del volgo salvar quei brevi componimenti sparsi, e diffusi per guisa che miei più non sono già da gran tempo, in questo almeno mi adopererò che non abbiano a lacerare le mie opere maggiori. Sebbene a che lagnarci del volgo ignaro, se contro quelli che si spacciano per dotti, di più grave e più giusto lamento ci porge cagione il vedere che oltre ad essere per molti capi ridicoli, accoppiano ad una crassa ignoranza un'estrema superbia? Si recavano un giorno costoro a gloria intender qua e là qualche parola di alcuni scrittori: ed oggi di questi stessi impudentemente straziano la fama.

O età tenebrosa, ed osi tu disprezzare la veneranda antichità che fu a te madre, e delle arti tutte gloriosa ritrovatrice? E non che agguagliarti, ardisci tu di vantarti ad essa superiore? Lascio da parte il volgo, feccia degli uomini, le cui parole meglio di risa son degne che di riprensione. Lascio i seguaci della milizia, e i conduttori degli eserciti che non vergognano di reputare compiuta e perfetta a tempi loro quella militar disciplina, che fra le loro mani corrotta è al tutto ed estinta; i quali nessuna impresa coll'ingegno e coll'arte, ma tutte con ignavia ed alla scorta del caso conducendo, vanno alla battaglia lindi, azzimati come se andassero a nozze, non d'altro pensosi che di vini, di vivande, e di libidine, più disposti alla fuga che alla vittoria, e non a ferire e conquidere i nemici, ma bravi solo ed esperti a far gli spavaldi, e ad allettare gli sguardi delle loro baldracche. A tutti costoro son da perdonare i falsi giudizi per la ignoranza in cui vivono, e per l'assoluto difetto di ogni dottrina. Taccio pure dei re i quali, stimando forse consistere il regno nell'oro nella porpora nello scettro e nel diadema, solo per questi fregi si credono uguali ai più grandi: e mentre non per altro siedono sul trono che per reggere, onde venne loro il nome di re, non essi reggono, ma si lasciano reggere, e da quali consiglieri lo sa Iddio: soprastanno ai popoli, e sono sudditi alle voluttà, re degli uomini, e servi del sonno e della lussuria.

Anche costoro di qualche scusa fa degni l'ignoranza di ogni antichità, e la vanità inseparabile dallo splendore di un alto stato, e di una prospera fortuna. Ma quale scusa potranno meritare gli uomini letterati che non potendo ignorare le cose antiche, vivono pur ciechi tra le tenebre de' medesimi errori? Mi viene, amico, la bile, e tutto mi sento rimescolare per ira il sangue, quando parlo di costoro, che a' giorni nostri si vedono venir fuori in parvenza di dialettici, non so qual più fra ignoranti o farnetici, e quasi branco di nere formiche vomitate da putrefatto tronco di vecchia quercia, devastano i campi di ogni più eletta dottrina. Platone, Aristotele, Socrate, Pitagora, ad essi, son uomini degni di sprezzo e di derisione. E quali, Dio buono, sono i maestri, quali i dottori alla cui scorta essi si attengono nelle stolte loro sentenze?

Mi guardi il cielo dal profferirne il nome: nome nullo per merito, ma dalla volgare frenesia magnificato: ché non io vorrò mai porre tra i grandi quelli che vidi starsi fra i minimi: eppure questi essi levano a cielo, e abbandonata ogni più fida scorta sulle vestigia si pongono di questi, i quali non so se poscia che furori morti, qualche cosa imparassero, ma so bene che finché vissero, non ebbero né scienza, né fama di sorta alcuna. E che dire di quelli che tengono a vile quello splendidissimo sole di eloquenza che fu Cicerone, o Seneca, o Varrone disprezzano, o aborrono dallo stile di Livio e di Sallustio, cui dicono aspro ed incolto? Mi avvenne un giorno di trovarmi in mezzo a questa nuova scuola di svergognati e di pazzi, e sentendo come avessero messa la lingua addosso a quel secondo luminare di eloquenza che fu Virgilio, mi volsi ad uno di quegli stolti, e sfacciati pedanti e lo richiesi che mai avesse trovato in quel sommo scrittore che degno gli paresse di tanta severa censura. Sai tu che cosa, alzando in atto di disprezzo la fronte, egli mi rispondesse? Che Virgilio usava troppo le copule.

Or va, Marone, affaticati, suda, e dà di lima al poema, che dal cielo ti dettarono le muse, perché esso cada dappoi fra mani siffatte. Or che dirò di un'altra razza mostruosa di uomini religiosi all'abito, ma per animo, e per costumi al tutto profani, per sentenza de' quali Ambrogio, Agostino, Girolamo, non già dotti, e sapienti, ma parolai e ciarloni sono da giudicarsi?

Io non so di qual parte ci siano piovuti questi teologi, che più non la perdonano ai dottori della Chiesa, né la perdoneranno fra poco agli Apostoli, od al Vangelo, disposti ad aguzzare le lingue impure contro Cristo medesimo, se a difendere la causa propria ei non soccorra al bisogno, stringendo il freno a queste indomite bestie. È già fra loro per uso frequente passato in costume, che quante volte alcuno di quei venerandi nomi sia proferito o con taciti gesti, o con empie parole lo mettano in dileggio. Di Agostino, dicono, che molto vide, ma seppe poco; né più cortese è il giudizio che fanno degli altri.

Venne ultimamente nella mia biblioteca un di costoro, che veramente all'abito non era religioso (ma la vera religione consiste nell'esser cristiano), un di costoro io diceva, che han per vezzo di parlare com'è di moda, ciò è a dire che non si piacciono di se stessi, se non quando alcuna ingiuria contro Cristo, e contro la celeste dottrina di lui han vomitato, al quale avendo io citato non so qual passo delle divine Scritture, spumante di rabbia, e turpemente atteggiato il brutto volto ad ira, e a disprezzo: tieniti, mi disse, per te cotesti dottoruzzi tuoi e della Chiesa. Io so bene cui seguire, so ben io cui debbo credere. Usasti, io ripresi, le parole dell'Apostolo: piacciati ugualmente averne la fede: Cotesto Apostolo tuo, soggiunse egli allora, fu un seminatore di parole, e per soprappiù fu pazzo. Ma bravo, io ripresi, o filosofo: della prima di coteste due cose altri filosofi in antico a lui posero cagione, e della seconda lo accusò Festo preside della Siria. E sì che di parole fu seminatore utilissimo, e il seme sparso da lui, coltivato dal salutifero vomere dei suoi successori, e dal santo sangue dei martiri innaffiato, fruttò quella larga messe di fede che tutti vediamo.

A questi detti schifiltoso egli rise, e rimanti pur tu, mi disse, buon cristiano: di cotesto io non credo un acca: e Paolo, ed Agostino, e tutti gli altri, che tanto esalti, io tengo in conto di cicaloni. Oh! se tu leggessi Averroe: vedresti quant'egli sovrasti a tutti cotesti tuoi spacciatori di ciance. Arsi di sdegno il confesso, e a mala pena mi tenni dal mettere le mani addosso a quell'indegno bestemmiatore. Vecchia, dissi, è per me questa contesa con altri eretici pari tuoi: or vattene alla malora tu colla tua eresia, e fa' di non tornarmi più innanzi. E presolo pel mantello con modo meno cortese che al mio, non già che al suo costume si convenisse, lo misi all'uscio di casa. E mille, e mille son de' cotali a cui frenare non vale, non dirò già la maestà del nome cristiano, e la riverenza di Cristo, al quale si prostrano ossequiosi gli Angeli in cielo, ed insultano dalla terra i miserabili figli dell'uomo, ma né il timor de' supplizi, né gli armati inquisitori della fede, né le carceri e i roghi, incapaci a domar la ignoranza, e ad attutire la rabbia dell'eretica pravità. A tali tempi siamo venuti, o amico, in tale età ci avvenne di sortire la vita, e d'invecchiare: tali, e di questo maggiormente mi dolgo e mi sdegno, sono i giudici nostri, vuoti d'ogni sapere, tronfi per falsa opinione della propria virtù, cui non basta che siano perduti i libri degli antichi sapienti, se non facciano ancora insulto alla fama, e alle ceneri loro, e paghi della propria ignoranza, quasi che fosse poco il non sapere nulla di nulla, abusano del crasso e superbo loro intelletto, ponendo in voga autori nuovi, e diffondendo fra noi straniere dottrine. Se dunque avesti tu in animo di sottrarre le opere tue a cosiffatti giudici, o tiranni, e per difetto di altro difensore le consegnasti alle fiamme, non ti condanno del fatto, e della causa ti lodo.

Con molte delle mie feci io pure lo stesso, e quasi mi pento che nol facessi con tutte. Imperocché d'aver giudici più giusti non v'ha speranza: e di questi che abbiamo cresce ogni giorno il numero e l'audacia. Non più sole le scuole, ma piene già ne sono le più grandi città, e ti fanno impedimento per le strade e per le piazze. Ed io meco stesso mi corruccio, perché negli anni or ora trascorsi, soverchia mi paresse la misura della celeste vendetta, e fatto quasi vuoto di abitatori piangessi il mondo: che d'uomini forti forse era vero, ma di uomini volgari e di viziosi mai, come credo, non fu più d'ora piena la terra: e penso che se a quei tempi io fossi stato dell'animo come ora sono disposto, avrei facilmente rimandata assolta la figlia di Appio Cieco.

Addio: ché per oggi non ho altro da dirti.

Di Venezia, il 28 di agosto.

 

 

 

NOTA

Nulla è in questa lettera che possa servirci a trovarne con certezza la data: ma dal posto che tiene nell'epistolario io la credo del 1366. Né il testo della medesima abbisogna di alcuna spiegazione, essendo in essa esposto con somma chiarezza il caso che le dette occasione. Noti il lettore come senza riserva alcuna, e senza parola, che dimostri repugnanza a proferire il giudizio, venga dal Petrarca nominato nostri eloquii dux vulgaris colui, al quale dalla pubblica opinione si attribuiva il primato nella italiana poesia, che è quanto dire Dante Alighieri. Chi fosse quel vecchio Ravennate che i primi onori del nostro Parnaso aggiudicava a Dante, lasciando al Petrarca i secondi, e i terzi al Boccaccio non saprei dir con certezza: ma inclino a credere che fosse quel Pietro di Messer Giardino da Ravenna che il Boccaccio stesso narra essere stato di Dante amicissimo. Dal modo però in cui il Petrarca ne riferisce la sentenza, chiaro si pare ch'ei vi si adagia agevolmente: ond'è da credere che il suo modo di giudicare intorno al cantore dei tre regni si fosse modificato e cambiato in meglio da quello che era, quando nel 1359 scrisse al Boccaccio la celebre lettera 15ª del lib. XXII delle Familiari (Multa sunt in litteris tuis). Né forse andrebbe lungi dal vero chi pensasse che, non avendo egli mai voluto prima di quell'anno leggere la Divina Commedia per lo timore, siccom'ei dice, di farsene involontariamente imitatore, e di perdere l'originalità dello stile alla quale aspirava, non avesse veramente a quel tempo idea del sommo poeta adeguata al suo merito.

Poiché peraltro donatogli allora dal Boccaccio ebbe il poema, e poté a bell'agio ammirarne le stupende bellezze, rendendogli la dovuta giustizia si ristesse dal contrastargli il primato, e si tenesse contento del secondo posto. La quale ipotesi non punto contraddetta dalla storia, renderebbe ammissibile senza detrimento alcuno della fama del nostro poeta la opinione di chi scrisse ch'ei conobbe e rimeritò delle dovute lodi le immortali sue Cantiche. A lui farebbe ingiuria chi la cognizione del Poema sacro in lui già sostenesse quando al Boccaccio ei scriveva. Factum fateor: cioè quod a prima aetate quae talium cupidissima esse solet, ego librorum varia inquisitione delectatus nunquam librum illius habuerim, et ardentissimus semper in reliquis, quorum pene nulla spes supererat, in hoc uno sine difficultate parabili, novo quodam nec meo more tepuerim.

Ma punto non toglie che ciò sia vero, né in conto alcuno nuoce, anzi giova alla fama del Petrarca il credere, che avuto in dono dall'amico il poema, egli lo leggesse, lo studiasse, lo ammirasse, e ne fosse tratto a giudicare ed a scrivere sette od otto anni più tardi che l'Alighieri dovea reputarsi nostri eloquii dux vulgaris. Quanto alla figlia di Appio Cieco vedi Tito Livio (XIX, 39).