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Immagine di Petrarca in un ritratto di Altichiero del 1376 a Padova
LIBRO DECIMO SECONDO
LETTERA II
A GIOVANNI DA PADOVA MEDICO INSIGNE
Video, amice, apparatus tuos
Sulla stessa materia della lettera precedente.
[17 novembre 1370]
Vedo, amico, i tuoi apparecchi: scendesti in campo con tutto l'esercito. Or chi sarà che non tema al cospetto di guerriero sì forte del suo valore, armato di tutto punto, e pronto a spiegare tutte le schiere a decisiva battaglia? T'intendo.
Tu vuoi vincere ad ogni costo. Era questo, secondo che dice Platone, il costume degli Spartani che sempre appiccavano la pugna con indomabile proposto di uscirne vittoriosi. Oggi questo costume è fatto universale, e siamo tutti Spartani. Ma dimmi, in fede tua, o illustre amico, quando per effetto della tua forza, o della fiacchezza mia ti venga fatto di vincermi, credi tu forse che avrai vinto ad un tempo le ragioni del vero, e quelle della tua coscienza?
Tanto io ti apprezzo tanto ti stimo dell'animo nobilmente modesto, che quand'anche tu riuscissi a vincere nella disputa il tuo contraddittore, credo che tacendo confesseresti a te stesso esser tu vinto dalla forza del vero. Molte sono le ragioni che da questa disputa, anzi da questa letteraria battaglia mi ritrarrebbero, senza dir nulla della robustezza del tuo ingegno, e dell'arte tua nel combattere. E prima di ogni altra l'estrema debolezza in cui, non so se per sempre, mi ha ridotto la grave malattia dianzi sofferta. Poi le occupazioni continue che mi tengono affaccendato, e non solo le antiche e a te note degli usati miei studi, le quali vanno sempre crescendo, ma nuove ancora e da te non conosciute per bisogne domestiche. Faccio l'agricoltore: faccio l'architetto. Vedi efficacia de' consigli de' medici sull'animo mio. Cerco con somma premura da tutte le parti quanti più posso alberi fruttiferi, e d'ogni specie, profittando all'uopo di questa stagione ch'è la più acconcia agl'innesti.
E parmi poterlo fare con più sicurezza, da che tu stesso mi ti chiaristi non nemico delle frutta, anzi amatore di quelle. Quanto poi alla moderazione nell'usarne, prego il sovrano dispensatore d'ogni bene che questa virtù, non per le frutta soltanto, ma per tutte le cose utile e necessaria, si degni infondere e mantenere nell'animo mio. E sebbene all'altra cura onde ora sono occupato, a quella cioè del fabbricare, cominci ad esser poco acconcia la presente stagione, pure non mi ristò, né vado a rilento; anzi per lo contrario mi affretto a compire una camera per te, la quale altro non abbia di campestre che la quiete e il silenzio, dove se ti piaccia talvolta riparare dal rumore della città, potremo unanimi e concordi in tutte le altre divine e umane cose, litigare interminabilmente sui cibi. Alle cause che addussi, un'altra se ne aggiunge più forte, ed è che io temo di offenderti. Tanto si teme quanto si ama. Se liberamente io metto fuori quel che ho dentro dell'animo, temo dir cose che ti dispiacciano, e ne sarei dolentissimo: se per lo contrario mi taccio, potresti tu sospettare che poco conto io facessi di quel che tu dici: e questo è falsissimo. Vedi bivio pericoloso che è questo in cui mi trovo. M'adopero a tenermi sulla strada di mezzo, e ad evitare se sia possibile l'un pericolo e l'altro: ma se per natura del soggetto sarà forza cadere nell'un de' due, ti offenderò piuttosto che parere di disprezzarti: perocché le offese fra buoni amici si risarciscono con una scusa, mentre il disprezzo tronca l'amicizia fino dalle radici, e non può in modo alcuno con essa conciliarsi.
Accade spesso che gli amici fra loro si offendono, anzi rare sono le amicizie cui mai non turbasse offesa alcuna. Parlando Seneca di un amico: «non lo amerei, dice, se talora non l'offendessi.» Io dunque forse ti offenderò; ma mi adoprerò a tutt'uomo perché questo non siegua. Prevedo peraltro che se io voglia veramente servirmi dei diritti che dà l'amicizia, nulla cioè dissimulare, nulla nascondere, e teco parlare liberamente come parlerei con me stesso, il non dispiacerti a me sarà meglio impossibile che difficile. Poiché dunque cautamente procedendo, del mio timore io ti feci per tempo avvertito, se avverrà mai che in alcuna cosa io ti offenda, te ne chiedo fin da ora perdono, e dalla tua cortesia mi prometto che tu di buon grado già da questo momento me lo voglia concedere. Un'altra cosa ancora prima di entrare in argomento.
In te guardando io ti considero sotto duplice aspetto; d'amico e di medico. Quale amico, io ti vedo a me sì fattamente concorde che parmi non poter esser cosa o pensiero che a me piacendo non piaccia a te pure; né so formarmi altra idea dell'amicizia da quella che mi rappresenta due anime unite in un'anima sola. Per lo contrario coi medici di molte e gravissime cose io da gran tempo mi trovo in contrasto: e non senza ragione, ma sì perché una lunga esperienza ed un'attenta osservazione mi convinse che rarissime volte alle loro promesse tiene dietro l'effetto, e questa è cosa che alla natura dell'animo mio tanto si oppone, quanto alla natura del corpo il veleno. Tutto questo io volli premettere perché tu non abbia a dolerti di qualche puntura che venir ti potesse dal mio discorso, e ti ricordi di questa distinzione ch'io faccio.
Perocché sebbene tu veramente non sia che sol uno, e materialmente non ti possa dividere in due, sai bene che per opera dell'intelletto dividere si possono anche le cose indivisibili. Se dunque ti venga fatto di trovare in questa lettera alcun che di dolce e di tranquillo, abbilo come detto all'amico: e quel che leggerai d'amarognolo rimandalo al medico, e senza prenderne sdegno o meraviglia, di' a te medesimo: questo è indiritto al medico, non a Giovanni. Ora eccomi a trattar del soggetto, nel quale non tanto spero quanto desidero di esser breve, sì perché tante volte ne ho tenuto discorso cogli amici e con i medici che ormai diventa noioso il tornarvi sopra, sì perché, se non posso risparmiarti il disgusto che nasce dalla contraddizione, vorrei almeno diminuirlo col farlo breve: ma pur di questo m'è tolta la speranza dall'acrimonia dello stile che tu adoperasti a difesa della medicina. Né so dartene il torto: perocché so bene come non tua libera elezione, ma il voler della sorte, secondo l'ordinario costume, giovinetto ti spinse sulle orme paterne, quantunque codesto ingegno a più nobili cure acconcio si dimostrasse, e fosse degno di cercare non vani farmaci a pro di questa vile e caduca umana spoglia, ma efficaci e certi rimedi per quella parte di noi, che veramente è nobile ed immortale.
Ed oh! così fosse stato: ché tu frutto di gloria, ed io tratto ne avrei dolce conforto alla vita. Ma di questo è inutile il parlare: perocché tu non puoi essere un altro da quel che sei, e più per te non è tempo di mutare strada, quantunque sappiamo di alcuni illustri personaggi che in età già provetta cambiarono la professione e gli studi. D'essi però mi taccio perché non si paia che sul punto di cominciare il duello, io tenti l'avversario a fuggire e disertar la bandiera. La prima cosa pertanto tu impugni le armi a difendere i tuoi scrittori, verso i quali io ti parvi meno riverente di quel che si deve: e per dar forza al discorso coll'autorità dell'esempio, chiami con essi a paragone Prisciano e Cicerone, ai quali aggiungi Virgilio, Omero ed altri ancora, ma ultimo della schiera Tolomeo. E affè che costui mi viene a taglio: perocché veramente innanzi al mio tribunale esso si appaia coi medici; non già per tutte le cose sue, ma per quelle in cui si fa seguace degli astrologi, ed imitandone la presunzione, l'ardire e l'impudenza, parla dei prognostici, e dalle stelle argomenta gli umani destini in onta alla religione, alla fede, a tutti i dettami della verace filosofia. Aggirata pertanto in molte parole questa è la domanda che tu mi fai.
Se merita fede Prisciano allorché parla delle parti del discorso, della correzione e del conveniente loro ordinamento, se Cicerone la merita insegnando a fare adorna l'orazione, se Omero e Virgilio son buoni maestri dell'artificio poetico, perché non dovremo ugualmente credere ai medici intorno alla salute del corpo? E rechi in mezzo altri nomi di famosi personaggi di cui ciascuno degno è di fede nell'arte sua. Ma poiché tutti costoro battendo quasi la stessa strada, vanno a riuscire, ad un medesimo fine, rispondendo per uno o per pochi di loro, avrò risposto per tutti.
Da quale di essi peraltro trarrò principio? M'avveggo di trovarmi ad un mal passo, e meglio mi sarebbe il tacere; ma non posso: ché me ne fanno divieto e il rispetto che porto a te, e una famosa sentenza che nel tuo concittadino Livio si legge di quell'uomo prudentissimo che fu Annone Cartaginese: «Se ad un senatore o ad un sapiente che m'interroga (egli dice) io neghi di rispondere, sarò creduto o superbo o servile: delle quali cose la prima fa oltraggio alla libertà d'altrui, la seconda alla propria.» Forza è dunque ch'io parli, né parlando debbo dir altro da quel che sento; ché se il silenzio talvolta degno è di lode, degna sempre di biasimo è la menzogna. Or dimmi in fede tua: che diacine di comune con i medici possono avere cotesti che hai nominati? Il soggetto o il fine che vogliamo dire di un grammatico altro non è che la correzione del discorso. Il retore insegna ad adornarlo, e officio dell'oratore è parlare appropriatamente per persuadere, com'è suo fine persuadere parlando. Della prima cosa vedo che trattano Prisciano ed alcuni altri secondo la natura della lingua latina, e quantunque essendo cosa positiva essa non potesse esser diversa da quel che è, colui specialmente che tu nomini volendo insegnarci ad usarne correttamente, si serve dell'esempio di coloro che primi la inventarono, cioè di Catone e di Ennio, come dice Orazio, e di Tullio pure e di Virgilio, e di altri che dettarono i libri loro nell'antico patrio sermone.
Paragonando dunque la lingua di questi con i precetti di lui, io non posso dubitare ch'egli m'insegni bene la grammatica. Che se nelle sue regole fosse alcun errore, non egli, ma quelli sarebbero da accagionarne, e la colpa sarebbe degl'inventori, mentre egli esponendo il fatto loro meriterebbe lode di fedeltà, non biasimo alcuno. Quanto a Cicerone l'orecchio e l'intelletto mi costringono a confessare non esser possibile a lingua umana parlar più dolce di lui, più elegante, più efficace a persuadere e a convincere. Proprio de' poeti non è già il mentire, come dice il volgo ignorante; che se ciò fosse, sarebbero da tenersi in poco conto le Muse; ed i poeti, ond'è tanta penuria, che solo quella degli oratori è più grande, s'incontrerebbero ad ogni piè sospinto in tutte le piazze, in tutti i crocicchi. Ufficio loro è immaginando creare, che è quanto dire con ingegnosi trovati tratti dalla natura o dall'ordine delle cose morali, ornare di bei colori la verità, e adombrarla sotto il velo di piacevoli invenzioni, rimosso il quale tanto più bella risplenda, quanto più difficile riesce il discoprirla. E questo tutti sanno con sommo magistero essersi praticato da Virgilio e da Omero.
Or procediamo innanzi, e tu preparati a udirmi con sofferenza. Soggetto della medicina io credo essere la salute, non gli ornamenti del discorso, ed ufficio del medico non il parlare con eleganza, ma il curare con efficacia. Qual esito avessero le cure d'Ippocrate e di altri antichi medici noi non sappiamo, se pur non sia chi ci stimi obbligati a prestar fede al suo discepolo Galeno, uso a menare gran vanti, e a credere che Esculapio richiamasse in vita Ippolito poiché fu morto, e così col fatto di lui si pensi poter rispondere al Re profeta che domandava: potranno forse dai medici risuscitarsi i morti?
Ma qualunque esser possa l'opinione nostra intorno ai medici antichi, de' quali la lontananza de' tempi e de' luoghi lascia correre quei giudizi che ognuno a senno suo si piace formarne, se parlare io debba di quelli che vivono a' tempi nostri, e nei nostri paesi, poste da un canto le imposture degli Arabi, posso affermare averne conosciuti alcuni molto eloquenti: del resto le leggi dell'urbanità mi consigliano a tacere. Imperocché non so per qual caso o per quale colpevole loro elezione tutt'altro si studiano imparare da quello che si conviene alla loro professione: e quanto poco essi valgano nella cura degl'infermi, nessuno meglio di te lo conosce, nessuno io credo più di te sarebbe disposto a rimeritarli del vituperio loro dovuto: perocché più d'ogni altro il sapiente abborre dall'ignoranza: e se di questo io non ti credessi capace, non ti amerei né ti stimerei siccome faccio. Tu taci, è vero: ma non è già per dimostrarti con essi magnanimo, sebbene per scansare il pericolo di attirarti l'inimicizia de' tuoi colleghi. Eppure a te più che ad altri si converrebbe sfidare animoso gli sdegni e le ire non che di pochi omiciattoli, ma del mondo intero, ed a codesti ciurmatori gridare a tutta gola: perché vi fate ad ingannar tutto il mondo? Perché abusando della credulità e dell'ignoranza degl'infelici, vendete a caro prezzo e spacciate per verità le menzogne? e mentre in tutti gli altri si punisce col supplizio, in voi si rimerita d'indegno premio il delitto dell'omicidio?
Oh come belle, oh come utili sonerebbero sul tuo labbro queste parole! Ma tu fuggi il pericolo d'essere odiato, e gli altri intanto si tacciono per ignoranza e per timidezza. Io solo mi svocio e non è chi mi ascolti.
Il volgo è fatto sordo: i dotti non vogliono venire a contesa: quelli che io smaschero mi adducono in sospetto quasi che io movessi questione per un consolato, una pretura, un patrimonio, o intendessi a vendicare una ingiuria, o parlassi per spirito di parte, io che sole difendo le ragioni del vero. Mentre pertanto da una parte tu taci, io dall'altra son fatto inutilmente già roco, e l'universale degli uomini pigro ed inerte per connivenza dissimulando sonnecchia, l'erronea opinione dilata le radici, le profonda nel suolo, ed aiutata dall'insania del volgo, licenziosamente signoreggia, e non che impunita, ma carezzata e largamente premiata imbaldanzisce e trionfa. Io che teco parlando più che ad un medico fo ragione di parlare ad un amico, non ho ritegno a dirti che spesso mettendo a paragone i discorsi de' medici colle cure da loro operate, mi ricordo di quella sentenza ne' libri retorici di Cicerone: esser cosa assai facile il parlare di un'arte, ma il praticarla molto difficile: il che in nessun'altra dimostrasi vero quanto in quest'una. Si vedono tutto giorno medicare colle parole, e coi fatti mandare all'altro mondo, per guisa che alle opere loro li giudicheresti esser tutt'altri che non sono ai discorsi: eppure, orrenda cosa a dirsi, non meno alle opere che ai detti loro generalmente si presta pienissima fede.
Oltre tutti i pregi da te rammentati, uno e singolare ne ha la medicina: quello di essere fra le arti la più sicura. L'uso di una voce barbara, un solecismo che tanto facilmente sdrucciola dalla penna, svergogna il grammatico: un periodo, un verso che per manco d'armonia offenda l'orecchio, fa gridare la croce addosso all'oratore e al poeta. Il medico ammazza, e nessuno glie lo appone a delitto: né l'aver ammazzato gli basta, ma sempre trova contro cui rivolga l'accusa. Questi morì dal freddo, quegli dal digiuno, l'uno per aver mangiato delle frutta, l'altro perché bevve dell'acqua. Non muore alcuno senza che a lui se ne dia colpa: e se guarisce, la lode è tutta del medico. Non gentili, non lusinghiere, non dolci sono queste cose ch'io dico, ma sono vere, e tu ne sei persuaso al par di me: ché ben intendo a che monti il dir male de' medici ad un medico.
Ma il medico al quale io parlo è insigne e nobilissimo, come volgari e da nulla sono i medici che vitupero: né questo farei se non sapessi ch'egli è diviso al tutto dal gregge comune, e però giustamente s'ebbe il nome di egregio, e non avessi imparato che soventi volte la vergogna di molti torna a lode di un solo. So dunque benissimo quel che mi dico, e cui lo dico, né senza avvedermene io sono entrato in questo ginepraio. Dure, scortesi sono le cose da me discorse, ma pur son tali che riuscir non possono ingrate ad uomo amico del vero, nemico delle sètte, ed uso a seguire non le volgari opinioni, ma la realtà delle cose. Contro la medicina, se pure avviene alcuna, nessun sarà che possa dire aver io detta mai una parola; ma contro costoro che si danno nome di medici ho molte volte scritto e parlato, e Dio m'è testimonio che sempre lo feci a viva forza e a malincuore. Che se potessi pensar di loro tutto al contrario, molte sono le ragioni per le quali ognuno intenderà com'io dovrei esserne lieto. Primieramente non v'è classe d'uomini dati allo studio nella quale io abbia avuti tanti amici quanto è quella de' medici. Ma la forza dell'amicizia non è mai tanta che in me possa vincere l'amore del vero.
In secondo luogo io so bene di avere un corpo soggetto a mille infermità, e quantunque debba un giorno morire, non so tenermi dal bramare la sanità finché mi dura la vita. E sì che a tal uopo assai sovente in questi anni sentii, ed ora più che mai, sento il bisogno di un medico. Ma non rispose al bisogno l'aiuto, e invece di efficaci rimedi che da loro mai non ottenni, ebbi conforto di promesse e di solenni discorsi, quasi che i miei mali fossero nell'animo e si potessero curare a parole, e in queste non nell'opera consistesse l'esercizio dell'arte medica. Ma come la medicina non fa l'uomo eloquente, così la eloquenza non vale a tornarlo sano: né senza perché il Poeta consapevole de' naturali segreti (siccome sempre parlando di questa materia mi torna alla memoria) chiamò muta l'arte della medicina, la quale a' dì nostri non che loquace è divenuta ciarliera. Ed io nelle molte malattie che soffersi, di parole dai medici ebbi sempre più assai che non volli, ma di rimedi non ebbi pur uno: e se finora ne uscii sano e salvo, e' fu perché l'ora mia non era ancor giunta.
Dalle cose fin qui dette e da mille altre che tralascio perché lo scherzo non degeneri in satira, avrai tu compreso perché a' tuoi medici io non posso prestar quella fede che presto per la grammatica a Prisciano, per l'oratoria a Cicerone, e per la poetica a Virgilio e ad Omero, e cesserai dall'accagionarmi di presunzione e d'insolenza. Imperocché io tengo per certo che qualunque medico di animo non pertinace, e specialmente se sia de' più dotti, tornato a casa e ritiratosi nella sua camera si ponga a porte chiuse a meditar solitario tutto quello che io scrissi finora, se ingannar non voglia se stesso, quantunque esternamente dia segno di contraddire, dovrà confessare in cuor suo ch'è tutto vero, e fra se stesso rammentando quel che gli avvenne, ricorderà quante volte per lui rimanessero deluse le altrui speranze, quante volte illuso fosse egli stesso dall'arte sua. Né già per caso io mi addussi a fermare questa sentenza nell'animo mio, ma oltre la ripetuta prova de' fatti mi fa guida l'autorità di famosi scrittori. Né dubito punto che tu sappia, né sto a ripetere, perché cose notissime, quanto di voi lasciò scritto Plinio Secondo, e quanto innanzi al vostro venir dalla Grecia, di voi predisse quel sapientissimo de' Romani che fu Catone il Censore. Ed ecco pienamente risposto a tutto quello che con lungo giro di parole da me tu chiedevi nella prima parte della tua lettera. Prima però di andare innanzi lascia che io mi faccia incontro ad una difficoltà che muovere mi potrebbero coloro i quali son usi ad appuntare ogni parola: ed è ch'io parvi dubitare se esista una medicina. Sarebbe follia il negarlo, poiché tali e tanti famosi ingegni ne parlano come di cosa reale.
Ed io credo che esista la medicina, arte nobilissima che nelle sacre pagine si dice creata da Dio, e nei libri profani tanto onorata, che si finse averla trovata gli Dei, e coltivatala Apollo ed il suo figlio Esculapio. So che quand'anche tutto perisse il genere umano, non perirebbe la medicina, né alcuna delle altre arti. Ma questa nuda esistenza nell'ordine astratto e nella mente di Dio qual pro, qual vantaggio può mai recare alla salute de' corpi, alla felicità delle anime nostre? Perché siano utili gli uomini non basta ch'esistano le arti: bisogna che gli uomini le conoscano. Ed ora io ti dirò come a parer mio gli uomini conoscano la medicina. Se tu consideri come soventi volte le più lievi infermità riescano a funestissima fine, se vedi quanto miseramente vivono anch'essi sovente i medici, non potrai tenerti dal sospettare che questa cui chiamiamo medicina, quale che veramente siasi in se stessa, fu nel mondo introdotta ad ingannarci e sospingerci in mezzo ai pericoli, solo perché, con manifesto danno di molti, pochi potessero arricchire, ovvero che l'arte in se medesima nobile ed utile, dagli uomini non è punto compresa, o finalmente che quantunque da loro sia compresa, non è di sua natura applicabile alla infinita varietà degli umani bisogni. E come potrebbe portarne diverso giudizio se considera come fra mille e mille farmaci non se ne trovi uno che giovi, molti riescano a nocumento, e molti ancora conducano a morte? Intendi già che io parlo di quei medici che chiamansi, e il ciel volesse che fossero, medici fisici: perocché di quegli altri cui dicono chirurghi, e cui attribuiscono quasi a vergogna l'esercizio di un'arte sordida e poco più che meccanica, in me stesso ed in altri ho sperimentato efficacissimi i rimedi, e molte volte li ho veduti con fomenti ed empiastri guarire del tutto in poco d'ora, o render più lievi e meno dolorose schifosissime piaghe e gravi ferite. Chè dei rimedi loro veggono essi e fan vedere gli effetti: ma i rimedi di quegli altri agiscono al buio, e se attaccano le viscere, l'infermo è spacciato. Sarà dunque, se così si vuole che io dica, nobilissima l'arte in se stessa e divina, e degna al tutto delle sperticate lodi di cui voi l'onorate, le quali però vorrei che più ne' fatti consistessero che nelle parole: ma bisogna pur confessare che i medici stessi molto ne dubitano, e che quindi, mentre a voce l'esaltano, col fatto loro l'avviliscono. Così è forza di credere guardando ai medici dell'età nostra.
Degli antichi per avventura avrei proferito diverso giudizio: poiché se vera è la fama, sappiamo di un certo medico, e mi pare fosse Asclepiade, aver detto che consentiva a dichiararsi indegno del nome di medico se ad alcuna malattia, anche nella estrema vecchiezza, tranne quella della morte, fosse andato soggetto, ed aver meritato che di quel nome ciascuno lo reputasse degnissimo, perché fino all'ultimo giorno della sua vita visse sempre sanissimo: che, anzi, fosse effetto del caso o del suo libero volere, attenne più ancora di quello che aveva promesso, essendo morto non per naturale infermità, ma perché già vecchissimo cadde precipitando dall'alto, e così rimase estinto. Oggi però che vediamo ogni giorno medici giovanissimi e robustissimi infermare e morire, che vuoi che sperino gli altri? Ne brami un esempio e recentissimo?
Quel mio concittadino che nella lettera precedente io ti adduceva qual testimonio vivente della robusta mia complessione, medico straricco e tanto stimato nell'arte sua che dicevano di lui esser capace di risuscitare i morti, verde ancora degli anni, e vigoroso siccome un toro, in un batter d'occhio è passato da questa all'altra vita. Vedi volubilità di fortuna, incertezza ed inutilità della medicina. Che potrai tu rispondere? non aver egli posseduto la sua scienza? Questo no certamente, ché saresti contraddetto dalla fama e dal vero. Resta dunque che tu mi conceda o non valere a nulla la medicina contro le malattie, o non avere egli fatto alcun conto di quella medicina che professava. E veramente io posso dirti, e molti altri lo sanno, esser egli stato ghiottissimo di fichi, di mele, di ciliege, per guisa che non era contento mangiarne con quella parsimonia che tutti hanno in uso, ma farne soleva pasto a sazietà, come i giumenti fanno del fieno.
E questo pure le mille volte mi avvenne di osservare, che molti medici da me discordi in massima, erano nella pratica in pienissimo accordo con me: specialmente quando si trattasse di quelle atre e schifose pozioni, che con tanta correntezza agli altri prescrivono, e da sé tengono lontane le mille miglia, di che vorrei lodarli, se meno pronti si porgessero a propinarle altrui. Qualunque di queste mie sentenze ti piaccia seguire, non ti parrà certamente un sacrilegio questa mia renitenza a venerare la medicina, ed a credere impossibile il viver sano senza di lei, la quale vediamo o venir meno nel più urgente bisogno al principe de' suoi seguaci, o essere da lui posta in non cale per se medesimo. E potrai far tuttavia le meraviglie di questo mio modo di pensare? Mi credi dunque così stolido per natura, o così rimbambito dalla vecchiaia, che mentre più abbisogno di consigli per la mia salute, io volessi negar di ascoltarli? Egli è che in mezzo a tanta incertezza, vedendo come nulla v'abbia di sicuro nemmeno per coloro che professano quell'arte, e non sapendo qual cosa fuggire, a quale apprendermi, qual tenere per falsa, quale per vera, mi sento astretto ad aborrire da questa farragine di dubbiezze, e stimo più prudente partito l'affidarmi alla mia natura, o per dir meglio all'assistenza divina. Or che trovi a ridire sul fatto mio? Immagina di vedermi sulla riva di un fiume pericoloso, mentre inesperto ed ignaro del guado, quindi mi sento invitato a passarlo in un punto, quindi in un altro, e vedo intanto coloro, che a me si porgevano per guide, cadere e andar travolti e sommersi nelle onde. Se a tale spettacolo io faccia sosta e cerchi un ponte, una barca, un altro mezzo qualunque di più sicuro passaggio, ti parrò degno di esser deriso o non piuttosto lodato?
Ed è forse meno ragionevole questa mia esitazione? O non ti pare pericoloso abbastanza il torrente della vita? Sono forse rari i naufragi di chi ci scorge al cammino, e pretende mostrarci le vie più sicure? Io sono fermo nel credere che costoro o tutti ingannino a ragion veduta, o siano vittime essi medesimi del proprio inganno, e non sappiano quel che si dicono: dappoiché li vedo seminare consigli a mano piena, e frattanto de' consigli che danno o non valersi punto, o provarne in se stessi funesti gli effetti. Non sperare dunque d'indurmi mai a prestar fede ai medici col persuadermi o col garrirmi. E l'uno e l'altro mezzo ti falliranno allo scopo. Vuoi tu che ad essi io mi presti fiducioso e riverente? Fa' che io li veda seguire essi stessi i loro precetti, e mostrami che dal seguirli colgano buon frutto. Se delle due cose sol una io veda non avverarsi, tu perdi meco il tempo e il fiato. E se delle due non se ne avveri nessuna? Sono inutili le dicerie e i sillogismi.
Io non mi lascio infinocchiare. Venga pure un oratore, un dialettico a dimostrare che io porto le corna: speri tu che io voglia tastarmi colle mani la fronte? Quantunque anzi acerbe che no siano le cose da me finora discorse, io fo ragione che tu le legga con animo pacato e tranquillo: conciossiaché tu sia tale che sdegnarti non puoi per cosa detta da un amico, e a difesa del vero che a te è carissimo: e sebbene vero a te non paresse, ti basterebbe che vero sembrasse a chi lo dice, come verissimo or sembra a me, che alla realtà delle cose più che alle parole do fede. Tali peraltro non sono gli amici tuoi che, quantunque assurda e altrui dannosa, ostinatamente difendono perché utile a loro stessi la propria opinione, e vanno in furia contro chiunque si attenti a contraddirli. E bene a prova io lo conobbi, quando, son già molti anni passati, trovandomi in Francia, si suscitò la medesima lite fra me ed i medici del Papa, sostenuti in quella guerra da tutti i medici dei Cardinali.
Dopo molte scritture dall'una parte e dall'altra uscendo dal seminato essi proruppero in contumelie, ed ignorando forse tutto il male che potevano dire di me, cominciarono a vomitare ingiurie contro la poesia. Prendendo la cosa a giuoco risposi io loro meravigliando che mentre da me tenevansi offesi, se ne volessero ricattare sul povero Virgilio che non ne aveva la menoma colpa: ed aggiungeva che quantunque da giovane avessi alcun poco coltivato la poesia, da lungo tempo lasciatala in disparte, a più gravi cure teneva intesa la mente. Spumanti allora di collera chiesero quelli che loro io dicessi qual arte da me si professasse, millantando che qualunque essa fosse, quella si proponevano di vituperare: colle quali parole già facevano manifesto non la verità, ma la vendetta esser l'unico scopo a cui miravano. Ed io rammentandomi il detto di Paolino Vescovo di Nola risposi loro che di nessun'arte mi conosceva non altro essendo che un ortolano.
E se allora questo era vero, oggi è verissimo, né mai quanto adesso io potei dirmi tutto ortolano, mentre tu invece muovi aperta guerra a Pomona sforzandoti a tutt'uomo di persuadermi ad abbandonare gl'innesti e la coltivazione dell'erbe. Ma lasciando gli scherzi, se alcuno adesso mi chieda qual arte io professi, non esiterò nel rispondere. Richiestone un giorno Pitagora non ardì chiamarsi Sofo o Sapiente, come avevano fatto i sette antichi: ma inventato un nuovo nome si disse Filosofo che vale non sapiente, ma di sapienza amatore: nome allora modestissimo, divenuto poscia orgoglioso e superbo, e a' dì nostri tumido e vano, perché usurpato da gente che non la sapienza professa ma le ostentazioni vanitose, e il disputare di cose che non montano un frullo. E questa è l'arte che io dico non già di professare e di possedere, ma sì d'amarla e di desiderarla come quella che può rendermi migliore: e se vi sia chi di quella voglia dir male, non contro me saranno dirette le offese, ma solamente contro il buono ed il vero. Ma riprendendo il filo del tuo discorso tu proseguivi dicendo doversi ai medici fede e reverenza perché grandi sono le fatiche ch'essi sostennero. Se questo sia vero io non lo so: né posso di leggieri negarlo o concederlo. D'uopo è però che tu mi provi essere gloriosa ogni fatica. Se tu inverti la sentenza, io ti rispondo col nego: perocché sempre alla gloria va innanzi la fatica, ma non sempre alla fatica tiene dietro la gloria. L'agricoltore, il marinaio fatica assai più del capitano e del filosofo.
Faticosa dunque sempre è la gloria, ma non sempre gloriosa è la fatica. Tu prosiegui dicendo che con un uomo il quale ragioni, siccome io faccio, non può disputare un medico. E dico lo stesso ancor io; anzi, se ben mi ricorda, cominciai protestando che io intendeva non disputare col medico, ma scherzar coll'amico. Ciò non ostante tu mi assalisci con più di forza mettendomi alle strette, e poiché non può nulla su me l'autorità de' medici, convinto mi dici della mia stessa confessione, per guisa che da te ridotto a non poterti fuggir di mano io debbo esser vinto coll'armi mie. Non è nuova la cosa: perirono molti per l'armi loro. Così Saule ne' monti di Gelboe chiesto invano che lo scudiere lo trafiggesse, sulla propria spada gettandosi si tolse la vita. Cosi Davide nella valle di Terebinto non avendo spada di proprio, toltala a Golia, se ne valse per troncargli la testa. Così presso Troia in quell'ultima notte Corebo si provvide delle armi rapite ai nemici, ed esortati i compagni a fare lo stesso, piombò con essi addosso ai Greci, e ne sospinse gran numero all'orco. Ma com'è mai che rivolte a mio danno mi costringano le armi mie a darmi per vinto?
Perché confessai, né avrei potuto pur volendo negarlo, che si cambiano di giorno in giorno, e che da quello che furono si cambiarono in me già d'assai l'età ed il temperamento. Ebbene che deduci tu da questo? Che mutato il temperamento mutar si deve anche il tenore della vita. Sta bene: né ciò potrebbe negare chiunque è persuaso della debolezza e della caducità di nostra natura. E sì che di me questo dissi e lo ripeto. Ti par piccolo mutamento che mentre da giovane io soleva di mattina, di sera, a mezzo il dì, e in tutte le ore del giorno tracannare acqua pura finché ne capisse lo stomaco, ora una sola volta sul tardi ne bevo con tutta moderazione? E non è già per consiglio de' medici che così faccio, ma per seguire la mia natura, che qualunque io mi sia, intende bene e mi dice quel che mi giova. Ond'è che s'ella da me chiedesse le stesse cose che volle un giorno, quelle, dico, che punto non discordano dalle leggi dell'onestà, e dalla salute dell'anima, sarei prontissimo a fare il piacer suo, rammentandomi che Catone presso Tullio diceva: ottimo duce è la natura, e non altrimenti che a Dio, a lei dobbiamo porgerci docili e obbedienti. Sempre io dunque obbedii, e obbedirei pur sempre alla natura, salvo che nelle cose vietate, non già da Ippocrate, ma solo da Dio. Dirò di più. Se nella prima età mia mi dava l'occhio in qualche frutto acido e acerbo, spinto da naturale incitamento io mi lanciava ad afferrarlo, e staccate a forza dai rami le poma immature, ingordamente le divorava. Ora vedendole, vado innanzi per la mia strada, e rammentando il tempo passato, rido fra me stesso del mutarsi degli umani appetiti. Solito una volta a non cibarmi d'altro per giorni interi che di pere, di mele, di fichi e di pesche, ora mi contento di mangiarne qualcuna o prima o dopo il pasto, frenando sempre colla legge della moderazione la tentazione del gusto: né questo faccio per dar retta a Galeno, ma per seguire i consigli della mia natura, che quando è sana non appetisce mai cosa che possa nuocerle.
E questa è pur la ragione di quello onde a te pare desumere contro di me ineluttabile argomento: cioè che de' sei consigli tuoi, i quali non dubito proceder tutti da tuo sincerissimo amore per me, a tre soltanto io mi porgo obbediente. Né l'amicizia né la dottrina tua s'abbia a male che io ti dica come ad osservarli mi sia cagione non tanto l'autorità d'uomo qualunque, quanto la voce di colei che sempre salutari porge i consigli, specialmente a chi fatto è libero dal fomite delle giovanili passioni. Quando pertanto i medici sono d'accordo con quella interna infallibile consigliera, di buon grado ad essi io consento: ma se dissentono, dissento anch'io, e ricusando le inique condizioni che per la pace mi si propongono, preferisco il vivere in guerra eterna coi medici, alla necessità di piegare il collo al loro giogo. E perché imporre mi si dovrebbe la legge di non cibarmi giammai di buone frutta maturate al raggio del sole? Forse perché non piacquero ad Ippocrate? Vidi io medesimo uomini di diversissimi costumi, gli uni dissoluti e scapestrati, gli altri sobri e integerrimi aborrire da quelle per modo da non poterne sopportare l'odore e la vista. Conobbi già un Cardinale della Chiesa Romana, per senno e per età venerando, il quale aveva in tanto orrore le mele cotogne, che al solo vederle impallidiva, e sudava freddo, ond'è che i suoi familiari ponevano ogni cura ad impedire che gli venissero innanzi. Ve ne fu un altro che abitava nel palazzo del Papa Clemente VI, al quale i più giovani suoi colleghi mostrando una rosa, egli tosto fuggiva, e quelli inseguendolo, egli era costretto a correre di stanza in stanza per quei vastissimi appartamenti, e se impedita gli fosse stata la fuga, si sarebbe gettato giù dalla finestra anche con manifesto pericolo della vita, pur di non sentire l'aborrito odor della rosa. Eppure io non so se la fragranza d'altra cosa più di quel frutto, o di quel fiore sia soave e grata.
Or poni che questi due fossero scrittori in medicina: troveresti nei loro libri fulminate di condanna le cotogne e le rose, e vietatone l'uso all'universale. Ma questi, amico mio, non sono giudizi. È segno di difettosa natura l'abbonir dalle cose che generalmente da tutti sono bramate ed appetite. Sono pur molti per lo contrario che tutto lodano ed esaltano quello che piace, e la ragione sommettono al gusto. Un de' cotali ch'io conobbi, e se ben mi ricorda lo conoscesti tu pure, fu Giovanni da Parma canonico mio collega in quella chiesa, il quale, senza cercare degli altri suoi meriti, si procacciò in medicina una grande celebrità, e non solamente nella sua patria, ma e nella Curia Romana da tutti quei satrapi, e fra la turba dei medici che d'ogni parte vi convenivano, se non tenuto il primo, certamente fra i primi era annoverato.
Ebbene: costui facendo eco agli altri medici, vietava l'uso di tutti i frutti, ma permetteva quello de' fichi. E perché? perché gli altri a lui non piacevano, ed era dei fichi ghiottissimo divoratore. Seguendo norme sì fatte ci converrebbe regolare la vita nostra sul gusto altrui. A me peraltro è dato sperare che su questi due punti cessi ogni discordia con te e con Ippocrate: perocché questi non vieta il bere acqua pura, e tu permetti l'uso delle frutta, volendosi però dall'uno e dall'altro ch'entrambe le cose si facciano con moderazione. Ma questa siccome necessaria io già riconobbi in tutte le cose, né il bene stesso credo esser bene se da lei si scompagni. A che torna dunque questa disputa nostra? Perché vuoi ch'io ripeta quello che ad esuberanza dissi e ridissi nella lettera precedente? Non è l'uso de' frutti e dell'acqua, ma lo smodato abuso di questa e di quelli che può reputarsi nocivo: e qui noi siamo d'accordo. Ma tu ritorni sulle medesime, e vieni in campo con difficoltà che da me già ti furono ridotte al nulla. Questo è un andare contro il proverbio che dice: non rifare il già fatto.
Tu vedi dunque che le spade e le lance che togliesti dalla mia armeria, si spuntarono sul mio scudo e sulla mia lorica. Se vuoi uscire vittorioso dal duello t'è forza trovarne delle migliori, o rifar loro la punta ad altra cote. Ecco però che di fianco vengono fuori nuove cagioni a rappiccare la contesa. Da tre delle cose che voi vietate siccome nocive, io docilmente promisi di volermi per sempre astenere. E perché dunque, tu chiedi, non far lo stesso delle altre tre? quasi che cui dessi tu fede per una cosa fossi obbligato a darla per tutte. E avresti forse ragione di domandarlo se da quelle io m'astenessi in ossequio de' medici, essendo a parer tuo comune a tutte e la ragione e l'autorità del consigliere. Ma io già ti dissi di attenermi al consiglio soltanto della natura. Se pertanto tu vuoi ragione dell'operare mio, chiedilo a lei, che per queste mi dette finora un consiglio, e un altro per quelle: e se avvenisse, il che peraltro io non credo, che il consiglio o il comando datomi per le prime essa facesse comune anche alle altre, non tarderò punto a seguirlo, perocché mai non mi fuggì dalla mente quel detto memorabile di Cicerone: doversi chi alla natura contrasta, pareggiare ai giganti che mossero guerra agli Dei.
Ora contro ogni mia aspettazione mi conviene tornar nuovamente a disputare o a scherzare con te intorno al digiuno. Relativamente al quale deridendomi quasi perché dissi di poter tutto coll'aiuto di Colui che mi conforta, mi rispondi che come medico tu di questo non puoi giudicare: creder tu pure che tutto può Iddio, e non che nel digiuno, ma nell'assoluta privazione di ogni cibo mantener l'uomo in vita, in sanità, e farlo ancora immortale: ma per le regole della medicina secondo le quali tu parli, essere impossibile che osservando il digiuno io possa mantenermi sano. Or vedi quanto sia grande il dissenso delle nostre opinioni. Senza il digiuno io dispero della mia sanità. E dissi che potrei digiunare coll'aiuto di Dio, perché credo che nessuna cosa di buono, per quanto lieve e da nulla ella sia, si possa fare senza quello.
Ma nulla di singolare o di prodigioso io chiedo per questo da Dio, come sarebbe il mantenere in vita un uomo senza cibo, o il farlo immortale. Dico solo che, non ostante il divieto della medicina, e seguendo le leggi della natura e la inveterata mia consuetudine sento di poter digiunare, come sempre digiunai fin da fanciullo, e digiunerò finché posso e potrò, finché vivo. Né dico già finché sarò sano: perocché quando fossi malato digiunerei non per mia volontà ma per forza, non potendo, in quello stato prender cibo di sorta, ed essendomi tristo, ma sufficiente alimento la stessa malattia. Tu in cotesto tuo discorso del digiuno, delle frutta e di tutto il resto mostri creder che io sia uno di quella greggia di cui dice il volgo, che mai non crede aver mangiato abbastanza se non quando sente che il ventre gli duole. E mi ritorni sulla divisione de' pasti, cui non solamente consigliano i medici, ma tutti fan plauso i seguaci della voluttà, tra i quali per vero dire io non voleva annoverarti. Ora mi avvedo che approvi tu pure la loro sentenza, alla quale risposi abbastanza nell'altra mia lettera.
Checché ne pensino i medici, io credo che il mangiare più volte al giorno non giovi al corpo, e non si convenga alla pratica della virtù. Non bisogna stimolare la gola, né tornar più volte ad esporsi alle tentazioni della voluttà: ché incerta, lubrica, pericolosissima è la lotta, nella quale confessava già vecchio Agostino d'esser rimasto soventi volte vinto dal cibo, mentre, per servirmi delle sue parole, esilarata l'anima infelice, col pretesto della salute, porgeva alimento alla voluttà. Bastar dovrebbe una volta per ciascun giorno pascere questo schiavo, questo giumento dell'anima. Ahi! però che la più parte degli uomini e forse tutti, così com'è recalcitrante ed indomito, si studiano a farlo pingue e satollo: e lasciano intanto di fame languire l'anima al cui servizio ei fu destinato; di lei curando sì poco che mostrano o non conoscerla o averla in odio, quasi null'altro fosse l'uomo che corpo, e di lui non si leggesse: l'uomo è la mente, e non già quello che di lui si vede e si tocca. Voi seguite le dottrine di Aristotele, cui Cicerone stesso chiama maestro quando ragiona dell'anima. Ma né da voi né da lui di quest'anima altro si cerca che saper quel che sia, e quali siano le sue passioni: e contenti di poche definizioni, punto non curando di nutrirla, siccome a lei si conviene, tutto lo studio vostro ponete su questo frale e putrido corpo stimato da voi nobilissimo, ma da chiunque abbia fiore di senno in se medesimo conosciuto per quello che vale.
Ed oh! questo almeno che fate, faceste voi bene. Direi che da un medico non si dovesse pretender di più. Ma quanto bene il facciate lo dissi or ora, e in altro tempo lo dissi con parole che, se furono troppe per la pace e la tranquillità del mio spirito, troppe non furono per la difesa del vero. Quanto all'esempio materiale onde tu cerchi avvalorare le tue ragioni, come ad un piccolo focherello così allo stomaco di un vecchio doversi porgere non molto alimento ad un tratto, ma poco per volta affinché possa concuocerlo, e digerirlo (m'è forza usare queste stesse parole da medico usate da te) io lo ammetto di buona voglia senza bisogno di prove. Ma che per questo? Tu poni gran fondamento sull'età mia: perché mentre gli altri la nascondono, la negano, e a voce e in iscritto si ostinano a scemarsi gli anni, quasi potessero col mentirli tener lontana la morte, io non ne faccio mistero e apertamente la dico a ognun che voglia saperla. Ma non sai tu che alcuni a quarant'anni sono più vecchi che non altri a sessanta? Non tutti hanno uguale la vecchiezza come non per tutti uguale è la vita. Potrei citarti a mille gli esempi volgari: ma più mi piaccio degli illustri. Non ricordi tu di aver letto quanto debole e fiacco fosse il giovinetto figlio dell'Africano nel tempo stesso in cui Catone già vecchio, e Massinissa nonagenario robustissimi si dimostravano, e capaci di sostenere le più grandi fatiche? Tu conti gli anni miei senza por mente al vigore della mia complessione: e a molte cose deve avere riguardo chi giusta vuol proferire la sentenza.
Perdonami, amico: ma nasce da questo l'errore in cui sei sul conto mio. Io non dubito punto che tu voglia, che tu desideri guarirmi dai mali miei; e so di certo con Cicerone che i medici, quando hanno scoperta la causa del male, sono sicuri di poterlo curare. Ma qui sta il punto: questo è il difficile. I consigli che con tanto amore tu mi dai non possono riuscirmi a bene, perché tu guardando all'età mia prescrivi rimedi che mi rinvigoriscano, e per tal modo mi medichi non in ragione de' miei bisogni, ma in ragione degli anni: laddove tutti i miei mali nascono da soperchio di vigore e di forze. Ben io sovente me n'era avvisto, ma non mai tanto ne fui persuaso quanto in quest'anno medesimo, allora ché per la notizia che ti giunse della mia infermità, e per dimostrazione dell'affetto che mi porti, ti piacque venirmi a visitare fra questi monti, in compagnia di quel cortese e gentilissimo tuo collega di professione e di nome, del quale già prima tu stesso mi avevi procacciato la conoscenza e l'amicizia. Conciossiaché io mi rammento ch'entrati appena nella mia camera, e sentito come quasi vi si soffocasse dal caldo, faceste entrambi le più grandi meraviglie perché potesse il corpo mio mandar fuori tanto calore quanto appena si crederebbe venirne da un giovane. Ed io, sebbene oppresso e quasi sopito dalla febbre non potessi proferir parola, ascoltava tutte quelle esclamazioni di meraviglia senza punto meravigliarne io medesimo, come quegli che accostumato a quel fuoco, nulla sentiva in me che fosse avvenuto fuori dell'ordinario. Gelida per lo più e debole è la vecchiezza: ma vi sono pure de' vecchi calorosi e robusti. Come degli antichi così mi piaccio nella memoria degl'illustri moderni. Vidi io medesimo in Roma Stefano Colonna, uomo mirabile in ogni età, che già vicino a compiere gli ottant'anni stavasi affacciato a riguardare da una finestra una mano di fortissimi giovani che si esercitavano in giuochi cavallereschi. Era ivi da un canto un'asta famosa che nessuno fino a quel dì aveva potuto non che spezzare, ma nemmeno piegare, ed egli in aria di scherzo ne faceva rampogna a quei giovani accusandoli di poca vigoria. Il figliuolo suo primogenito, valoroso che era e forte guerriero, «Poco costa, o padre, gli disse, lo starsi con le mani in mano a riguardare dalla finestra chi suda nella fatica, e trinciar sentenze proverbiando i giovani, e levando a cielo gli antichi.»
A quelle parole preso da generoso ardore scese egli a basso il nobile vegliardo, e gridando «credete voi forse che io più non sia uomo,» montò sul cavallo che più gli stava vicino, dette di sproni, e stretta con ferma mano quell'asta la fece volare in minutissime schegge, empiendo di stupore quanti lo videro, e più che tutti il figliuolo suo. Io mai non fui tra i robusti, nemmeno allora che robusta era l'età: ora sono debole e fiacco; ma fino a questo momento sono stato sanissimo; pure adesso, convalescente siccome sono, non sento alcuna debolezza allo stomaco: e Dio volesse che dir potessi lo stesso delle altre membra. Quello che posso dire con tutta verità, chiamandone il cielo in testimonio, è che mai quando fui sano, cibo alcuno né bevanda mi nocque: ché se una volta sola mi fosse questo avvenuto, son certo che avrei saputo astenermene per sempre. - Ma forse ti nocque senza che tu te ne avvedessi. - Può essere, e può non essere. Io certamente per me nol so, né crederei a chi lo affermasse, mentre tutto giorno mi avviene sentir questo e quello lamentando esclamare ahi! che il pranzo di questa mane, la cena di ieri sera, questo vino, quell'acqua mi han fatto male. Nulla a me accadde di simile, se pure de' mali miei più di me stesso non sia consapevole Avicenna.
E se questo fosse, bramerei di essere stato sempre privo di stomaco e di gusto. Avvi di molti che brutti essendo si credono belli, e questo avviene o perché non possono vedere se stessi, o perché vedendosi volentieri s'ingannano, e vogliono dagli altri essere ingannati, o si lasciano essi stessi ingannar dallo specchio. Ma qual può darsi uomo insensibile e torpido a segno da non sentir che sta male, e specialmente allo stomaco, le cui infermità da quelli che le sperimentano si dicono fastidiosissime? Ricordami di aver udito di un tale che avendo perduto un occhio, e domandato per beffa come stesse, rispose: «i medici dicono che io ci vedo: a me peraltro sembra di non vedere.» Ma in quanto a me, come se fossi malato non crederei ad alcuno che mi dicesse che io sto bene, così sentendomi sano nessuno può darmi ad intendere che io sia malato. Il focherello che tuttavia m'arde dentro, basta a concuocere quel che io vi metto, ed anche qualche cosa di più, se ve ne sia bisogno. - Ma una volta era capace di far molto più che ora non faccia. - È vero: ma io metteva dentro allora più roba, perché di più roba sentiva appetito. Già è tempo che questo per tutte le cose in me si venne a grado a grado diminuendo: e di questo, come Catone, io tengo obbligo grande alla vecchiezza, la quale, siccome vedi, crebbe in me l'avidità di ragionare, e scemò quella del mangiare e del bere. Ma né allora mi avvenne, né adesso mi accade giammai di mettere nello stomaco più di quello ch'egli sopporti, anzi fui sempre cauto a mettervi qualche cosa di meno. So che intorno a questo non può darsi regola certa, perché la quantità di cibo che ad uno è troppa può essere poca ad un altro, siccome è scritto nell'etica di Aristotele, e confermato coll'esempio di Milone Crotoniate, il quale dicesi mangiasse a cena senza sentirne gravezza tutto intero un grosso bue. Ma il pasto mio, comeché a stomachi più deboli fosse per avventura anche troppo, ragguagliato a quello della comune degli uomini fu sempre anzi scarso che no, ed io mi adoperai sempre piuttosto ad assottigliarlo che a crescerlo. E poiché teco parlando posso in Dio gloriarmene, ti dirò che dacché giunsi all'età virile, mai non mi avvenne di levarmi dalla mensa, fosse la mia modica e frugale, fosse quella degli amici, o la più lauta de' principi, senza portar meco un resticciuolo di fame. Né col pretesto del digiuno crebbi la dose, sebbene l'astinenza del giorno innanzi mi facesse talvolta mangiare con più appetito: e mentre anche ai religiosi si usa apprestare, quando han digiunato, pietanza doppia, io mai non tenni questo costume, e di una sola e piccola mi contentai e mi contento. Or chi crederebbe che tante parole io spendessi intorno ai cibi e allo stomaco? Ma me ne avrà per scusato chi pensi ch'io parlo ad un medico, sebbene tale egli sia cui meglio sarebbe parlar di cose più gravi e più nobili. Quel che ti ho detto peraltro è il pretto vero, e non per inutile vanto, ma solo in ossequio della verità io t'intertenni di cose che più volentieri avrei taciuto.
Volli però parerti piuttosto vanaglorioso, che farmi a te sospetto di coprire sotto il nome di una pratica virtuosa una colpevole intemperanza chiamando digiuno il mangiar dose doppia, ché quantunque oltrepassar la misura una volta il giorno sia meno male che il farlo due volte, e l'uno e l'altro è sempre male. Ma contro quello che io dissi e del digiuno e delle altre cose tu, nuovamente insistendo, mi replichi doversi ai medici da me prestar fede in quello almeno che la natura dimostra vero: e vero essere certamente che il corpo umano composto di contrari elementi ed esposto a mille danni senza interruzione si cambia e si altera. E chi ne dubita? Non v'ha bisogno che alcuno si affanni a farmene persuaso. Ma non ai medici in questo, sì alla natura do fede; anzi non è per fede che io presti altrui, ma per mia sola esperienza che ne son certo. E devi ricordarti quanti argomenti a conferma di questa verità io già ti addussi, né ignori quanti altri addurre se ne potrebbero, se di prove abbisognasse un fatto che pur troppo a ciascuno di per se stesso si manifesta. A questo ponendo mente, quasi tu in mano tenessi una scritta di pugno mio, alzi baldanzoso la voce, e gridi vittoria. Affè che io ti credeva un grave filosofo, non un puerile pedante della razza di quelli onde oggi son piene le piazze e le vie, i quali non sanno parlare che disputando, non possono disputare perché ne ignorano l'arte, e quel ch'è più non impararono mai quel che per loro era il meglio, cioè a dire, a tacere, ed appligliandosi sempre al peggio, gridano, schiamazzano, entrano in farnetico.
Ecco il sillogismo con cui tu mi assalisci. O che per gli anni, o che per altra causa qualunque si muti nell'uomo la natura, mutar si deve ugualmente il tenore della sua vita. - Sta bene. Ma in te mutata è la natura per gli anni insieme, e per la malattia. - E questo io non posso negare perocché l'ebbi già confessato. Ergo... no,, urbanamente e con gravità adoperando tu non ti servi di quella formula fastidiosa prediletta alle scuole di Parigi e di Oxford, che fu il tormento di mille ingegni: e dici invece che da queste premesse, pratico come sono della forma sillogistica, qual debba trarsi la conseguenza io debbo scorgere più chiaro che il sole a mezzogiorno. E sì che la vedo, e chiaramente la vedo: ma e tu non vedi chiaro tu pure che getti il tempo inutilmente a provare co' sillogismi quello che da me già ti venne spontaneamente concesso? Costume fu questo di Cesare, a cui fu detto: Per ottener quel che già stringi in pugno È il combatter follia. Rileggi la prima mia lettera, leggi questa, e vedrai che fu mutato il tenore della mia vita, ma in quelle cose specialmente nelle quali a mutarlo mi consigliò la natura. - E perché dunque non ancora nelle altre? Te lo dissi; e alle medesime interrogazioni non posso dare che la risposta medesima. Fa che quella me lo consigli, ed io le obbedirò come per le altre. E questa risposta stessa abbiti a quell'altro argomento col quale intendi provare che quando si è cambiato in una cosa, si deve cambiare anche nelle altre, quasi che tutte fossero le cose uguali, e mentre l'una nuoce, l'altra non potesse giovare, e fra loro non corresse grandissima la differenza. Or vuoi tu pure aver la bontà di sentire da me un sillogismo rozzo rozzo e tutto alla buona? Eccotelo. Secondo il mutarsi in noi della natura e' si conviene mutare il tenore della nostra vita.
Ma come in me si mutò la natura, così della vita fu mutato il tenore. Ergo? ...... La conseguenza non ha bisogno d'essere espressa. Sia la natura, come a me pare, o sia come dici tu, la medicina che lo comandi, io ho già obbedito. Ma il cambiamento della mia natura fu cambiamento di quantità e non di qualità. Fui già caldissimo, e caldissimo ora non sono: ma son pur caldo abbastanza. L'acqua, le frutta di loro natura son fredde. Se dunque, come i medici dicono, i mali si curano con i loro contrari, sta bene che un giorno ne usassi abbondantemente, ed ora più parcamente continui ad usarne. Ma questo appunto è quello che faccio: tira tu dunque la conseguenza. Tu dici che io sono ostinato nella difesa delle frutta e dell'acqua: e a me pare che i medici siano più ostinati di me nell'accusa, e quel che più mi fa rabbia, senza poterne addurre ragione che valga. Tu stesso dopo tante dicerie non altro trovi in esse di male, anzi tutto ti sembra buono di loro, fuorché l'abusarne. Ma di questo come si possono accagionare le frutta e l'acqua? E perché mai le han fatte segno i medici dell'odio loro? Qual demerito possono avere agli occhi loro in confronto de' fagiani? Di questi i medici sono amici, e non vogliono denigrarne la fama. E fan bene; ma perché toglierla ad altre cose senza ragione? Meravigliando per vero dire cercai più volte onde nascesse l'amicizia vostra per quegli augelli. Forse venuti com'è fama dalle rive del Fasi, fiume di Colco ond'ebbero il nome, e portati in Grecia sulla nave di Giasone, furono in tanto maggior pregio tenuti quanto più lontana n'era l'origine, e più difficile era il procacciarseli, e così fatti obbietto di lode alle diverse nazioni, che a poco a poco li conobbero, entrarono nella grazia e nella estimazione de' medici. Ma per forza d'affetto non si cambia, sebbene spesso si alteri, la verità delle cose. Buoni siccome vi paiono e a voi prediletti, se ne facciate abuso saranno cattivi anche i fagiani, cioè a dire, non essi, ma ne sarà cattivo l'abuso. Or di' lo stesso delle frutta, dell'acqua, di ogni altra cosa. Dell'acqua tu parli più alla distesa; ma io non saprei che aggiungere a quanto te n'ebbi già scritto.
Imperocché, mentre pare che ci avversiamo, in sostanza diciamo entrambi lo stesso. Lo so pur io che, se troppa se ne beva, l'acqua fa male; ma che diremo del vino? Fa peggio, e non lo neghi pur tu: ché l'acqua può nuocere al corpo, ed il vino nuoce spesso al corpo ed all'anima. Tu peraltro che di lodare il vino ti piaci più assai che non sembri conveniente, noveri fra gli altri suoi pregi quello di accrescere il calore. Né qui starò a ripeterti invano che io di questo non abbisogno, poiché mi pare di aver dimostrato ad evidenza che in tempi assai più felici de' nostri vissero molti benissimo, e molti vivono anche al presente senza conoscere il vino, e bevendo sola acqua pura: ché questa dalla natura, e quello ci fu dato dalla gola. Ma di tutto quello ch'io dissi tu esperto disputatore quasi per inavvertenza ti passi, mostrando di non conoscere qual sia l'eccellenza dell'acqua, se si ragguagli ai pochi vantaggi, ed ai gravissimi danni che ci provengono dal vino. Pure, siccome ti dissi, andrò più parco nell'usarne: più parco, dico, e a malincuore: ma ch'io la lasci non è possibile, finché a lasciare non sia costretto qualunque siasi di queste terrene bevande, le quali chetano per poco ma non spengono la nostra sete, e per celeste favore mi sia concesso d'andar lassù dove l'uomo si disseta, non col favoloso nettare degli Dei, ma coll'acqua del fonte che zampilla nel regno dell'eterna vita. Berrò frattanto con giusta misura l'acqua di questo mondo, ed userò parcamente anche del vino, non perché utile io l'estimi, ma perché bisogna pure acconciarsi al costume di questi beoni, la cui vita è più nel vino che nel sangue: ché se nol facessi mi avrebbero in conto d'uomo selvaggio e feroce. Ma voglio pur dirti che se Gesù Cristo nostro maestro e nostro Dio, nella cui vita è il modello di ogni più eccelsa virtù, tutte in sé accogliendo, dal peccato in fuori, le umane miserie, non si fosse egli stesso nutrito di carni, e non avesse bevuto vino, io sarei fermo nel proposito di astenermi costantemente da quel cibo e da questa bevanda, non già per seguire la dottrina di Pitagora, ma per sentimento di cristiana divozione; e non potrebbero rimuovermi punto le lodi onde i medici con ammirabile ostinazione n'esaltano i pregi. Eppure, se non il merito della temperanza, dovrebbe almeno il timore della vergogna rattenere da così fatte lodi gli uomini studiosi e letterati: ma fin dagli Arabi ci conviene ascoltarle. Anch'io bevo vino come fan tutti gli altri, ma non lo lodo, e mi lascio trarre a seguire il generale costume sebbene non l'approvi.
E qui di una cosa m'è d'uopo pregarti innanzi di por fine alla lettera: ed è che mai nel consigliarmi tu non ti valga dell'autorità degli Arabi. Io ne aborro la razza. Dei Greci so bene che furono grandi per ingegno e per facondia: e so che molti furono tra loro filosofi illustri, poeti ammirabili, eloquentissimi oratori, matematici insigni, e solenni professori di medicina. Ma in quanto agli Arabi tu potrai pensare e dire dei medici quel che vuoi: per quel che riguarda i loro poeti io so che di loro non si danno più fiacchi, più snervati, più turpi; e quantunque in tutte le nazioni, secondo che tu dici, diversamente disposti e a diverso genere di cose acconci fioriscano sempre preclari ingegni, dall'Arabia io non credo ci sia venuto mai nulla di buono. Ed io non so veramente per qual viltà dell'animo avvenga che, dotti siccome siete, leviate costoro con immeritate lodi alle stelle, per guisa che mi ricorda avere udito quel Giovanni da Parma, di cui dianzi io parlava, dire alla presenza di altri medici, i quali fecero plauso alle sue parole, che se fra i latini fosse alcuno dotto ancora quanto Ippocrate, potrebbe forse parlando esser lodato, ma che nessuno dai Greci e dagli Arabi in fuori saprebbe scrivere, e se scrivesse non ne potrebbe raccogliere che disprezzo. Io non so dirti qual trafittura, anzi quale profonda ferita facessero nel mio cuore quelle parole: e se fossi mai stato medico anch'io, ti giuro che avrei per sempre gettato lontani da me tutti i libri di medicina. Dovrò dunque compiangere la sorte de' latini, e specialmente dei nostri, ai quali, secondo l'avviso di costui, chiusa è la strada alla gloria, che a parer di Laberio consiste nella pubblica lode? Dopo Platone ed Aristotele osarono scrivere sopra tutte le parti della filosofia Varrone e Cicerone; in fatto d'eloquenza a Demostene tenne appresso Cicerone medesimo: nella poesia Omero fu seguito da Virgilio, e l'uno e l'altro de' nostri o raggiunsero o sorpassarono chi li aveva preceduti. Scrissero la storia Tito Livio e Crispo Sallustio ed entrarono innanzi ad Erodoto e a Tucidide che scritta l'avevano prima di loro. A Licurgo, a Solone, alle leggi delle dodici tavole tennero dietro i nostri giureconsulti, e dai pochi semi gettati nei solchi dai greci ingegni, così grande e ricca mèsse di civile prudenza accumularono nei granai della Romana Repubblica, che nella scienza del giure per giudizio dell'universale riportarono la palma. Dopo i greci matematici pubblicò le sue opere il nostro Severino. Ai quattro teologi della Grecia seguirono i quattro nostri, e furono tali i loro libri, che per consentimento di tutti, di gran lunga li superarono. E gli Arabi soli saranno sì fatti che dopo loro nessuno possa osare di scrivere? Or se sovente a noi latini fu dato di agguagliare e di vincere in opera d'ingegno e di stile gli scrittori della Grecia, anzi se al dire di Cicerone, quante volte ci mettemmo in capo di gareggiare con essi, tante riuscimmo vincitori, molto più dobbiamo credere di non temere il paragone con altra gente qual che si sia. E voi vorreste eccettuarne questi vostri Arabuzzi?
Oh infame eccezione, oh strano rivolgimento d'idee, oh miserando sonno anzi morte delle italiche menti! E sì veramente che del tuo ingegno io mi compiango, nel vederlo da così fatto errore ottenebrato ed oppresso. E tu perdonami se uscendo dal seminato proruppi in questa spiacevole ed amara rampogna. Io mi lascio trasportare dall'impeto, e se tu sapessi da quali e quante cure io sia travagliato, ne rimarresti stordito. Cessa intanto dal mettermi innanzi, siccome suoli, l'esperienza del passato, o i prognostici dell'avvenire per dimostrarmi che l'acqua, le frutta, il digiuno siano state o siano per essere cagioni di tutte le mie infermità. Se a tanto tu riuscissi dovrei darmi per vinto, alzare il dito, e cedere le armi. Ma né ti venne, né ti verrà mai fatto, siccome spero di dimostrarlo; ed io per lo contrario non tanto ti posso dimostrare, quanto ho ragione di tenere per certo che niuna di quelle cose mi nocque mai, anzi mi giovarono tutte. Dell'abuso non parlo: perocché questo di qual che siasi cosa fu e sarà sempre nocivo. Per ciò che riguarda l'acqua tu poi mi dici che Ippocrate ne loda l'uso: per i pomi e per le altre frutta vi consenti tu stesso, che per me sei fra i medici più autorevole d'Ippocrate. L'eccesso nell'uso dell'una e delle altre ho detto e ripeto che assolutamente io condanno. Unico punto pertanto di lite fra noi resta il digiuno: né questa (credilo a me) potrà mai cessare, se tu non t'arrenda. E sì che puoi farlo senza vergogna: perocché più degno di lode è l'arrendersi al vero, che l'ostinarsi ed il vincere sostenendo l'errore. E quantunque più vera non fosse, sempre più onorevole sarebbe la mia sentenza. Ed eccomi tornato all'argomento onde presi le mosse. Santa cosa è il digiuno, utile e salutare non meno al corpo che all'anima. Agli uomini poi che dediti sono allo studio, o ad altra seria occupazione, assolutamente necessaria io la reputo come per sentimento di pietà, così per mezzo di più agevole riuscita. Intendi già ch'io non parlo di pugilatori, di minatori, o di quelli che attendono ad altre laboriose opere servili.
Ad uomo sobrio, casto, e cui piaccia serbare mondo, incorrotto il suo corpo, ad un che magnanimo volga nella mente nobili imprese, a chi nutrito l'ingegno di belle dottrine attende a produrne frutto sublime, mal si conviene perdere il tempo sedendosi lunghe ore alla mensa, e dividendo a mezzo colla voluttà questa breve e fuggevole vita, dedicare alle cure più gravi, all'orazione ed alla filosofia sole le ore che avanzano ai simposii, ed ai banchetti. Adoperare da noi si deve tutto il contrario, e quello che avanza a quelle concedere a questi. Chè non ad aver signoria sull'anima nostra fu fatto il corpo, ma sì a servirla: e il servo si conviene starsi contento agli avanzi del suo padrone. E qui mi cade in acconcio il dirti come soventi volte mi avvenne udire nobili personaggi oltramontani, e specialmente prelati della Chiesa, parlando de' nostri costumi, far le più grandi meraviglie, e dir vituperi delle cene degl'italiani, ai quali per altri rispetti mostravano di avere grandissima stima. E a me ne dolse perché giusto mi parve il rimprovero, e conforme al giudizio che ne dà Platone: il quale anch'egli in una lettera ad Archita Tarentino censura le mense e le cene italiche. E alla riprensione di un sì grande filosofo, di buona voglia io mi rassegno; ma come senza immenso dolore rassegnarmi se penso che noi dobbiamo ad una barbara nazione cedere il vanto della sobrietà? E so bene come gli antichi padri nostri Romani non avessero per costume di pranzare, ond'è che il poeta disse: E lo stesso convito ei cerca a sera. Lascio ai medici il definire qual sia l'ora del pasto che più si convenga alla sanità: ché come in tante altre cose, così in questa pure fra loro sono discordi. Certo è però che chi ha che fare, ed i Romani ne avevano sempre e molto, trova più opportuno il differirlo alla sera: perocché il giorno all'operare, e la notte è più acconcia al ristoro ed al riposo. Né io biasimo la cena per se stessa, solo la disapprovo in chi la fa oltre il pranzo.
Ma i medici si trasmettono di mano in mano mirabili e stranissime sentenze, e col favore della gola e delle opinioni del volgo insegnano l'uno all'altro non darsi cosa peggiore del digiuno. E potrai tu fare le meraviglie e dire di non aver mai saputo che i consigli de' medici sono contrari a quelli di Dio, e a' suoi divini precetti? Ben io le faccio che un uomo quale tu sei dica di non aver mai inteso ciò che sanno anche quelli che non san nulla; ma so ben io che a quello, che spiace udire, sogliono tutti turar gli orecchi. Né io voglio additarti dove tu debba cercare quello che poi ti spiacerebbe di aver trovato: dirò solo che lo troverai, se lo cerchi. Come potreste voi non discordare dai consigli divini, se al bene del corpo provvedete con detrimento dell'anima, siccome fate appunto quando trattasi del digiuno? E qual forza sarebbe mai bastante a divellere errori che misero tante e sì profonde radici? Ed oh! volesse il Cielo che mentre tu mi sconsigli il digiuno, io ti potessi indurre a praticarlo, e almeno su questo punto mi riuscisse staccarti dalle dottrine della medicina?
Credi a me: ti troveresti contento di avermi lasciato riportare questa vittoria: e senza parlare di molti altri vantaggi che te ne verrebbero all'anima e al corpo, ne scorgeresti cogli occhi tuoi manifesto l'effetto, quando riguardandoti allo specchio vedresti più vivace il colorito del tuo volto. Raccogliendo dunque in poco il tanto che scrissi sovra le tre cose che a noi furono cagione di questa guerra, dirò che io feci proposto di attenermi alla via di mezzo e di voler esser sobrio: ma se dovessi cadere in uno degli estremi, vorrei piuttosto esser pallido per l'uso dell'acqua, che non rubizzo per quello del vino. Se mi debba nuocere il cibo, sia pur di frutta e non di carne. E se uccider mi debba il digiuno o la crapula, sarà meno male che io venga meno per languore di quello che l'epa per soverchio di pienezza mi crepi. Meno sozzo almeno, meno lurido si parrà il mio cadavere. Troppo e più che troppo io mi sono disteso in argomento inusitato ed al tutto alieno dagli ordinari miei studi: né certamente questa disputa avrei sostenuta con alcuno di coloro che sono medici, e null'altro che medici, specialmente ora che dalle liti e dalle contese aborro più che mai non facessi per lo passato.
E per vero dire, come sperare che altri soffra in pace di vedersi metter sossopra la casa, dar guasto alle proprie derrate, e torsi via dalle spalle l'unico mantello che lo ricopre? Chi non vorrebbe in tal caso fare il viso dell'arme e tutto sfogare il risentimento dell'odio e della vendetta? E ben così m'avvenne una volta, come ti dissi, con i medici del Papa. Ma da te nulla io terno: perocché del vasto tesoro di scienza che tu possiedi minima parte è la medicina. Per giovanile vaghezza, come sogliono pur molti far d'altre cose, ti piacesti di professarla: ma sanno tutti e tutti confessano che senza quella la tua dottrina sarebbe ancora più grande. Ed io faccio conto di essermi liberamente introdotto in uno sterile poderuccio di un ricchissimo amico mio possessore di fondi ubertosi vastissimi, e vistolo ingombro di bronchi e di spine, meno la falce con libertà e con franchezza, bramando e sperando di estirparli e disperderli, per guisa che più non gli facciano impedimento alla ferace cultura delle fertilissime sue terre. Comunque tu giudichi del fatto mio, mentre forse tu ti apparecchi a continuare la guerra, io verrò a te di persona. Il ritrovarsi insieme, il vedersi faccia a faccia tolse più volte le armi di mano ai combattenti, e fu principio di concordia e di pace.
Forse non è difficile che questa nasca improvviso, mentre da una parte e dall'altra s'apprestano le schiere a più feroce battaglia. Imperocché sebbene i medici pensino tanto diversamente gli uni dagli altri, ed io da te, uno peraltro è il pensiero, uno il desiderio comune ad entrambi noi: cioè che sano e lieto io viva quel poco di tempo che ancor mi rimane, e che questo poco duri più a lungo che sia possibile. Ma duri pure a lungo, se quaggiù v'ha pur cosa che a lungo duri, al fin dei conti forza è che io muoia.
Addio. Dalla villa Euganea onde febbricitante io ti scrissi cercando in tal modo di non sentire la febbre.
Al 17 di novembre.
NOTA
Di Giovanni da Padova a cui sono scritte queste due lettere parlò sì bene e sì a lungo Tiraboschi lo storico della nostra letteratura, che sarebbe un perder tempo e fatica il trascriverne le notizie con tanta accuratezza da lui raccolte. Restringendole dunque in poco per chi si contenti di conoscerne quanto basta alla intelligenza di queste lettere, diremo ch'ei fu dell'illustre famiglia dei Dondi di Padova, e figlio di quell'Iacopo medico insigne che pare fosse il fabbricatore di un famoso orologio collocato nel 1344 per comando di Ubertino di Carrara sulla torre del palazzo municipale di quella città. Ma l'aggiunto Dall'orologio che presero i Dondi, e che si conserva tuttora a quella nobile famiglia non da quella fattura di Iacopo ebbe l'origine, sebbene da un'altra ingegnosissima macchina costrutta da questo Giovanni suo figlio per Galeazzo Visconti, al cui stipendio esso Giovanni se trovava come medico, e col vistoso onorario di duemila fiorini. Questa macchina rappresentava il movimento di tutti i corpi celesti, ed era messa in moto da un solo contrappeso che faceva girare ad un tempo più che duecento ruote. Il Visconti ne adornò la sua biblioteca, ove si conservava ancora verso la metà del secolo XV, ed il Petrarca nel suo testamento di tutto questo ci fa fede indubitata quando legando a Giovanni cinquanta ducati d'oro pro emendo sibi unum parvum anulum digito gestandum in memoriam mei, lo chiama magistrum Iohannem de Dundis physicum, astronomorum facile principem, dictum ab horologio, propter illud admirandum planetarii opus ab eo confectum, quod vulgus ignarum horologium esse arbitratur.
Dai documenti della famiglia Dondi si raccoglie che Giovanni nato in Chioggia nel 1318 fu professore di astronomia in Padova nel 1352, andò nel 1367 lettore di medicina a Firenze, d'onde tornò a Padova verso il 1370: nel 1371 fu inviato dai Carraresi alla repubblica di Venezia: nel 1374 diede in Padova la laurea ad un figlio del celebre medico Dino da Firenze: nel 1378 fu chiamato a Pavia per curare Azzo figlio di Gian Galeazzo Visconti conte di Virtù, e morì del 1389 in Genova ove era andato a visitare Antonio Adorno suo amico. Ebbe due mogli: la prima Giovanna di Riprandino dalle Calze: la seconda Caterina di Gherardo dalla Pergola, la quale fece l'inventario della sua eredità consistente in un copiosissimo vasellame d'argento, in molti libri, in 11,643 ducati d'oro, e in una gran somma di denaro di diverse monete. La maggiore delle sue opere è il Planetarium, descrizione esattissima della macchina da lui inventata: le altre sono un trattato sul modo di vivere in tempo di pestilenza, tre trattati intorno ai bagni di Padova o di Abano, trentasette orazioni recitate in diverse circostanze, e buon numero di poesie, per le quali facilmente avrebbe ottenuto un posto nobilissimo fra i poeti dell'età sua, se tutto alle lettere avesse consacrato l'ingegno che divise fra l'astronomia e la medicina.
In quanta stima lo avesse il Petrarca, e quanto lo amasse abbastanza si raccoglie e dal tenore di queste due lettere, e dalla testimonianza ch'ei ne rende a Francesco di Siena nella Lett. 3 del libro XV delle Senili. A lui che diretto gli aveva un sonetto, ei rispose con quell'altro: Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio. Nel 1808 quando Scipione Dondi dall'Orologio fu eletto Vescovo di Padova, fu ivi stampata, con i tipi del seminario: Francisci Petrarchae quae inter editas est epistola prima libri XII Senilium ex autographo adnotationibus et variantibus lectionibus locupletata, e a quella lettera (il cui autografo, posseduto già da quel Vescovo, fu da lui donato alla biblioteca del Seminario) è unito un fac-simile del suo carattere, e la risposta del Dondi. Cercai inutilmente di vedere quel libro, di cui mi sarei certamente giovato a correggere diversi passi, che per la correzione delle antiche stampe riescono intralciati ed oscuri. Di altri due medici famosi del secolo XV si serba memoria in queste lettere. L'uno è Tommaso del Garbo, l'altro è Giovanni da Parma, che in un documento della Vaticana è detto Iohannes de Gabriel de Parma canonico di quella chiesa, prevosto di Prato, chirurgo e medico di Clemente VI, d'Innocenzo VI e di Urbano V, da non confondersi, come avverte il Tiraboschi con l'altro medico Parmense vissuto forse alquanti anni prima, e detto Mag. Iohannes de Parma filius quondam domini Alberti de Fufia.
Quanto alla data di queste lettere non v'ha luogo a dubbiezze. Il Petrarca scrivendole diceva di avere sessanta sei anni. Sono dunque del 1370.