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Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Familiares > Lettera I, 3lettera (I, 3) a Raimondo Superano
Scritta nel 1336
da Avignone, il 1 maggio
Lettera inviata da Avignone a Raimondo Superano giureconsulto di ormai veneranda età.
(I, 3) Venerando seni Raimundo Superano iuriconsulto, de flore etatis instabili.
Vereri michi, nec immerito, visus es, ne - quod fere omnibus adolescentibus accidit - etatis flore decipiar. Non pollicebor tibi, pater, animum solidum ac stabilem omnisque vanitatis exortem, quod in hac etate difficillimum et potius divine gratie quam humane virtutis arbitror; sed mentem haudquaquam sue conditionis ignaram spondeo. Sentio me, michi crede, nunc, dum maxime florere videor, maxime ad arescendum pergere; quid in re celerrima segnibus verbis utor? imo vero properare, imo currere, imo, ut loquar proprie, volare. «Volat enim etas» ut ait Cicero, et «omnino nichil est aliud tempus vite huius, quam cursus ad mortem; in quo» ut ait Augustinus, «nemo vel paulo stare vel aliquanto tardius ire permittitur; sed urgentur omnes pari motu nec diverso impelluntur accessu. Neque enim cuius vita brevior fuit, celerius diem duxit quam ille cui longior; sed cum equaliter equalia momenta raperentur ambobus, alter abiit propius, alter remotius, quo non impari velocitate ambo currebant. Aliud est enim amplius vie peregisse, aliud tardius ambulasse. Qui ergo usque ad mortem productiora spatia temporis agit, non lentius pergit, sed plus itineris conficit». Ecce quanti duo viri, velocitatem vite mortalis describentes, volare eam et currere asserunt. Quotiens vero Virgilius fugere tempus ait? Quid, si omnes tacerent? quid, etiamsi negarent? nunquid ideo segnius fugiens curreret aut volaret? Neque vero me talia summis labiis locutum putes, quique coetaneis meis est mos, per auctorum vireta "captare flosculos". Quod "viro turpe" ait Seneca, nobis ita permissum putant, ut nichil videatur in adolescente formosius. Ego me non nego flosculos interdum legere, quibus inter seniorum choros, si res tulerit, uti queam; sed ita ad optatam senectutem merita cum laude perveniam, ut ego magis omnia ad vitam extimo, quam ad eloquentiam referenda. Et quamvis, ut est usus, ut est ingenium, ut est animus, ut est etas, eloquentie studio delecter, tamen, et dum aliorum bene dicta recenseo et siquando michi aliquid forte sonantius excidit, utrobique magis meditor ut quicquid id est, vite prosit adolescentieque me malis expediat, quam ut verbis ornatioribus iuvenilis lingua lasciviat. Summe quidem dementie videtur in id niti ad quod forte nunquam sis venturus et quod paucis accidit quodque, cum adeptus fueris, modicum prosit, fortassis et multum noceat; illud vero negligere, quod et omnibus promptum, pre omnibus utile, damnosumque nunquam esse possit. Scimus autem magnorum autoritate hominum experimentoque rerum edocti, quoniam paucis bene loqui, bene vivere autem omnibus datum est. Et tamen plures illud amplectuntur, hoc fugiunt: ita est natura hominum, difficultatibus incumbere et ea cupidius appetere que laboriosius parantur. Ego quidem, etsi michi fidem etas deroget, teste tamen conscientia, lego non ut eloquentior aut argutior sed ut melior fiam, et, quod de morali philosophie parte dixit Aristotiles, ad omnes traho; quanquam, si uterque fructus sequeretur, fortunatiorem me laborum non negarem. Tibi autem, pater, gratias ago quod me paterne mones, et oro ut idem sepe facias; sed sic habeto, me iam hinc cepisse cognoscere cursum meum et pericula numerare et multos nosse decrepitos me altius humi fixos ac tenacius inherentes. Multum me tangit illud Domitiani principis iam senescentis: «Nil» inquit, «gratius decore, nil brevius»; et illud Catonis senis, apud Tullium: «Quis est tam stultus, quamvis sit adolescens, cui sit exploratum se ad vesperum esse victurum?»; et illud Virgilii tunc iuvenis iuveniliter dictum, sed vere, sed graviter, sed mature: Collige, virgo, rosas dum flos novus et nova pubes, Et memor esto evum sic properare tuum. Ego vero memor sum, et quamvis nondum plene possim, cogito tamen ut possum, et in dies ut profundius possim, nitor. Cogito non quid aliis videor, sed quid sum; et etatem hanc et qualemcunque formam corporis et reliqua - unde michi forsan ab aliis invidetur - sentio data michi ad periculum, ad exercitium, ad laborem. Denique, ut breviter concludam, scio me ascendere ut descendam, virere ut arescam, ut senescam adolescere, vivere ut moriar.
Vale. Avinione, Kal. Maiis.
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Al venerabile vecchio Raimondo Superano giureconsulto, sul carattere instabile della giovinezza.
Mi è parso che tu tema, e non a torto, che io, come suole accadere a quasi tutti i giovani, mi lasci ingannare dalla mia età fiorente. Non posso prometter ti, o padre, un animo saldo, costante e lontano da ogni vanità - ciò che, a quest'età, io credo troppo difficile e frutto piuttosto della divina grazia che dell'umana virtù -; ma si una mente per nulla affatto ignara della propria condizione. Credimi: io sento che, sebbene sia nel fior dell'età, mi avvio ad appassire; ma perché uso una parola cosi lenta per cosa tanto veloce? Dirò piuttosto che mi affretto, anzi che corro, anzi - per usar la parola giusta - che volo. «Il tempo vola », dice Cicerone; e «la vita nostra non è che una corsa alla morte», dice Agostino, «nella quale a nessuno è concesso o fermarsi alquanto o andare più adagio; ma tutti sono sospinti con ugual movimento per un medesimo impulso; né chi ebbe una vita più breve trascorse i suoi giorni più in fretta di chi l'ebbe più lunga, ma volgendosi egualmente per questi e per quelli eguali momenti di tempo, l'uno giunse prima e l'altro dopo colà dove ambedue correvano con non, diversa velocità. Altra cosa è infatti percorrere una via più lunga, altra andare più piano. Colui. dunque che fino alla morte vive un più lungo spazio di tempo, non avanza più lentamente, ma percorre un maggior cammino ». Ecco dunque che due uomini talmente grandi, parlando della rapidità della vita mortale, affermano che essa vola e corre. E quante volte anche Virgilio non dice che il tempo fugge? E se anche tacessero? e se anche lo negassero? forse che per questo più lento correrebbe o volerebbe? Né credere che io parli cosi a fior di labbra, e, com'è costume dei miei coetanei, vada cogliendo fiori nei giardini degli antichi scrittori; vezzo che Seneca stimava indegno di un uomo, e che questi vedono invece cosi lecito, che nulla sembra loro più bello in un giovane. lo non nego di andar talvolta raccogliendo fiori, per poterli, all'occasione, mostrare nella conversazione coi più vecchi; ma possa io giungere con meritata lode alla desiderata vecchiezza, come credo che ogni mio studio debba mirare piuttosto alla vita che al bel parlare. E sebbene, come porta in me l'abitudine e l'indole e l'ingegno e l'età, io mi diletti dello studio dell'eloquènza, tuttavia, quando colgo in altri un qualche bel detto o sfugge a me stesso un'espressione più squisita, nell'un caso e nell'altro vo piuttosto cercando che quell'eleganza, quale essa sia, giovi alla mia vita e mi liberi dai pericoli della giovinezza, e non che la mia lingua d'adolescente si sbizzarrisca in più adorne parole. È veramente da pazzi sforzarsi d'arrivare a ciò a cui non potrai mai arrivare, e che pochi raggiunsero, e che, anche se tu lo raggiungessi, poco ti gioverebbe, o forse assai ti nocerebbe; e trascurare invece ciò che è alla portata di tutti; utile soprattutto, e che non può mai nuocere. Del resto, noi sappiamo, e per l'autorità dei dotti e per l'esperienza della vita, che a pochi è concesso di parlar bene, a tutti di ben vivere; e tuttavia molti preferiscono quello a questo, ché tale è la natura dell'uomo; andare incontro alle difficoltà e desiderare con più ardore ciò che è più difficile a conquistare. Per conto mio, sebbene l'età giovanile mi tolga autorità, tuttavia - lo affermo con tutta coscienza - leggo per diventare non più eloquente o più espressivo, ma migliore, e ciò che disse Aristotele della filosofia morale, applico ad ogni disciplina; quantunque, se potessi cogliere l'uno e l'altro frutto, non negherei d'essere stato più fortunato nelle mie fatiche. A te intanto, o padre mio, rendo grazie dei paterni ammonimenti, e ti prego farmene spesso; ma tieni presente che io fin d'ora ho cominciato a conoscere la mia strada, e a contare i pericoli, e che vedo molti addirittura decrepiti i quali più di me guardano a terra e più tenacemente vi sono attaccati. Mi fanno molto effetto quelle parole dell'imperatore Domiziano già vecchio: «Nulla è più gradito della bellezza, nulla più breve»; e quelle di Catone il vecchio, riferite da Cicerone: «Chi è tanto sciocco, anche se è giovane, ché sia sicuro di vivere fino a sera? »; e ancora quelle di Virgilio, allora giovine e giovanilmente esultante, già piene di verità, di gravità, e di senno: Cogli le rose finché sono in boccio, E tu fiorisci con esse, o fanciulla; Ma pensa che il tuo tempo anche s'affretta. Questo io pur so, e sebbene non possa saperlo appieno, tuttavia ci medito come posso, e ogni giorno cerco di pensarci sempre più. Non bado a quel che sembro agli altri, ma a quel che sono; e sento che questa mia giovinezza, e bellezza di persona, qual ch'ella sia, e ogni altra cosa, che forse gli altri m'invidiano, mi sono state date come un rischio, un esercizio, una fatica. Insomma, per dirla in breve, so di salire per discendere,di fiorire per appassire, di crescere per invecchiare, di vivere per morire.
Addio. Avignone, il 1 maggio. |