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lettera (XVIII, 3)      a Giovanni da Certaldo

 

Scritta nel 1355

 

Lettera di ringraziamento a Giovanni da Certaldo perchè gli ha procurato un libro di sant'Agostino circa i Salmi di Davide, che Petrarca desiderava tanto avere.

 

(XVIII, 3)  Ad Iohannem de Certaldo, gratiarum actio pro transmisso Augustini libro in psalterium daviticum.

 

 

Beasti me munere magnifico et insigni; iam daviticum pelagus securior navigabo, vitabo scopulos, neque verborum fluctibus neque fractarum sententiarum collisione terrebor.

Solebam ipse meis viribus in altum niti et nunc alternis brachia iactando, nunc poste fortuito subnixus, per obstantes fluctus fessum ingenium librare, ita quidem ut sepe cum Petro "mergi" incipiens exclamarem: «Domine, salvum me fac» et sepe secum, Cristo manum supplicibus porrigente, consurgerem.

Hos inter estus puppim tu michi prevalidam et nauclerum industrium destinasti, divini ingenii Augustinum, cuius opus immensum - quod vulgo tres in partes, apud quosdam plurifariam divisum, multis et magnis voluminibus continetur - totum uno volumine comprehensum et a te michi transmissum letus stupensque suscepi et dixi mecum: «Non est inertie locus; siquid otii supererat, iste discutiet; magnus adest hospes et magno curandus impendio; dormire totis noctibus non sinet; frustra palletis aut connivetis, oculi: vigilandum est, lucubrandum est; frustra quietem meditamini: laborandum est».

Verum dicam: nemo ex amicis illum sine admiratione respexit, cuntis una voce testantibus nunquam se librum tanti corporis vidisse, quod de me ipse profiteor, rerum talium haud ultimus inquisitor; nec mole literarum quam sensuum ubertate maius opus.

Monstrum est cogitare quantus ille vir ingenio, quantus studio fuit, unde ille fervor scribendique impetus sancto viro, illa rerum divinarum notitia terrenis diu primum illecebris capto, illa demum laborum patientia seni, illud otium epyscopo, illa romani eloquii facultas afro homini, quamvis, ut idem quodam loco clare innuit, sua etate Afri quidem latinis literis uterentur, de quo proprie dictum putes quod ipse de Marco Varrone dixit Terrentianum sequens: «Vir» inquit, «doctissimus undecunque Varro, qui tam multa legit ut aliquid ei scribere vacavisse miremur, tam multa scripsit quam multa vix quenquam legere posse credamus».

Sed ut alia omittam eiusdem ingenii monimenta, seu que multa sunt michi, seu quibus adhuc careo, et rursum seu que Retractationum suarum libris idem ipse commemorat, seu que ibi vel oblita forte vel neglecta vel nondum scripta preteriit, ad que omnia relegendum vita humana vix sufficit, quis eum si nil aliud egisset, unum hoc scribere potuisse non stupeat?

Nullum unum et unius opus hominis latinis editum literis huic magnitudini conferendum scio, nisi forte sit alter eiusdem liber in epystolas Pauli, quod nisi fallit extimatio frustraturque memoria, prope ad eandem literarum congeriem videtur accedere, vel Titi Livii romanarum rerum liber ingens, quem in partes quas decades vocant, non ipse qui scripsit sed fastidiosa legentium scidit ignavia.

Huic tali amicitie tue dono, preter eam quam loquor magnitudinem, et libri decor et vetustioris litere maiestas et omnis sobrius accedit ornatus, ut cum oculos ibi figere ceperim, siticulose "hirudinis" in morem nequeam nisi "plenos" avellere. Ita sepe michi dies impransus preterlabitur, nox insomnis; in quo quidem delectationi mee, quam iam fere unicam nec nisi ex literarum lectione percipio, quantum hac tua liberalitate sit additum, non facile vulgus extimet, cui extra corporeos sensus nulla voluptas est; tu vero perfacile, neque mirabere libri huius adventum me sitienter atque anxie expectasse.

Scis ut cupiditati longa brevitas, festinatio tarda est; quodsi apud Nasonem amantis insani verbum est

Septima nox agitur, spatium michi longius anno,

quid michi visum putas, cui inter expectandum, ut ex persona alterius ait idem,

Luna quater latuit, toto quater orbe recrevit?

Solet honesta cupientium flamma serenior esse, non segnior.

Consulto tamen actum rear non quidem abs te, qui in mittendo multam solicitudinem habuisti, sed a fortuna potius, ut ipsa dilatio desiderio meo calcar munerique tuo gratiam cumularet; pro quo tibi grates meritas agendi, ne forte putes quod huius epystole contextus aut dies unus modum statuat, non alium scito quam legendi vivendique finem fore.

 

Vale, nostri memor.

 

A Giovanni da Certaldo, ringraziandolo per avergli inviato il libro di Agostino sui Salmi di Davide

 

 

Mi hai riempito di gioia col tuo dono bello e grande; ormai, io potrò più sicuro navigare per il mare davidico; evitare gli scogli non spaventarmi per il fluttuare delle parole o per l'irto di sparse sentenze.

Ero solito avventurarmi in alto mare con le mie forze e ora agitando le braccia, ora afferrandomi a qualche rottame, mantenere a galla il mio stanco ingegno; ma in tal modo, che spesso, cominciando come Pietro ad affondare, gridavo: "O Signore salvami", e spesso, come lui, mi sollevo, con l'aiuto di quel Cristo che porge la mano ai supplicanti.

In mezzo a tanti pericoli, tu mi hai mandato una valida nave e un esperto nocchiero, il divino ingegno d'Agostino, la cui opera immensa - che di solito è divisa in tre parti e talvolta anche in più, ed è contenuta in molti grossi volumi - io ricevo da te tutta compresa in un volume.

L'accolsi lieto e stupito, e dissi tra me: 'Bando all'inerzia; se un po' di pigrizia mi rimaneva, questi la scaccerà; ecco chi: viene un grande ospite, che deve essere sontuosamente accolto; non potrò più dormire a notti intere; invano, o occhi miei, vi meravigliate e mi fate cenno; bisogna vegliare, bisogna lavorare; invano pensate al riposo; dovete durar fatica'.

Dirò il vero: nessuno dei miei amici lo guardò senza ammirarlo, e tutti a una voce affermarono di non aver mai visto un libro di sì gran mole - ciò che affermo ancor io, non ultimo intenditore di tali cose:- nè opera più bella per munificenza di caratteri e di contenuto.

Non è possibile neppure comprendere di quanto ingegno, di quanta dottrina fosse quell'uomo, e donde gli venisse quel suo fervore e impero nello scrivere, quella conoscenza delle cose divine mirabile in un uomo già così a lungo impigliato nelle lusinghe terrene, quella pazienza delle fatiche in età così avanzata, quella possibilità di lavoro in un vescovo, quella capacità d'eloquenza in un africano, sebbene, come egli stesso in un certo luogo dice chiaramente, a quel tempo gli Africani conoscessero il latino; sicché giustamente si può dir di lui quel che egli, seguendo Terenziano Mauro, disse di Marco Varrone: «Uomo», egli scrive, «per ogni lato dottissimo, il quale tanto lesse che fa meraviglia che gli sia rimasto tempo per scrivere, e tanto scrisse quanto appena si può credere che altri possa leggere».

Ma per tacere di altre opere del suo ingegno - molte delle quali io posseggo, d'altre ancora son privo - e di quelle che egli stesso nomina nelle Ritrattazioni e quelle che ivi scordò o trascurò o non aveva ancora scritte, alla cui lettura appena basterebbe una vita intera, chi non stupirebbe che anche questa sola egli abbia potuto scrivere, anche se non avesse fatto altro?

Nessuna opera di un solo scrittore latino può per mole paragonarsi a questa, se non forse l'altro suo libro sulle epistole di Paolo, che se male non giudico e la memoria non mi fallisce, mi sembra per ampiezza avvicinarsi a questa, oppure il gran volume della storia di Tito Livio, che non lui che la scrisse, ma la schifiltosa pigrizia dei lettori divise in quelle parti che si chiamano decadi.

A questo dono della tua amicizia accrescono valore, oltre la mole di cui parlo, l'eleganza del volume, la bellezza della scrittura antica e la sobrietà degli ornamenti, sicché, quando vi poso gli occhi, come un'assetata sanguisuga non riesco a staccarmeli. Così spesso io passo le giornate senza pranzare, le notti senza dormire; e non so se il volgo che non conosce che i piaceri del corpo, potrà mai capire quanto la tua generosità abbia contribuito al mio diletto, che ora quasi soltanto io ritraggo dallo studio delle lettere; ma tu lo capirai né ti farà meraviglia ch'io abbia atteso l'arrivo di questo libro con avidità e impazienza. Tu sai che al desiderio è lunga ogni attesa, lenta ogni fretta, e se presso Ovidio un amante in delirio dice:

 

Son passate sei notti, a me d'un anno

Assai più lunghe,

 

che cosa credi accadesse in me, per il quale, come il medesimo poeta fa dire a un altro,

Quattro volte la luna si nascose

E altrettante riapparse nel cielo?

Il desiderio di chi vuol cose oneste è più sereno, ma non meno ardente.

Ma credo che saggiamente sia stato così disposto, non da te, che a spedirmi il libro ti adoprasti con tanta sollecitudine, ma dalla fortuna, perché l'indugio crescesse in me il desiderio e rendesse più viva la mia gratitudine per il tuo dono; e perché tu non creda che questa sola lettera e lo spazio d'un giorno possano bastare ad esprimerla, sappi ch'io ti sarò riconoscente finché non cessi di leggere e di vivere.

 

Addio, e ricordati di me.