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lettera (V, 18)      a Guidone

 

Scritta nel 1336-1340

da luogo imprecisato

 

Lettera inviata a Guidone arcidiacono di Genova.

 

(V, 18)  Ad eundem, de conditione status sui tunc presentis.

 

 

De statu meo, quem nosse desideras, breviter sic habe: etsi inter vere philosophantes unum sit hominis bonum et non tria, id scilicet quod in animo est bene celitus instituto et possessione generosi habitus insignito, quoniam corporis ac fortune non bona sed commoda quedam ac levia adminicula dici debent; quia tamen credo velle te de omnibus audire, geram morem voluntati tue.

Qualis sit animus meus, nec plene scio nec asserere meum est. «Sunt enim» ut ait Augustinus, «et iste plangende tenebre, in quibus me latet facultas mea, que in me est, ut animus meus de viribus suis ipse se interrogans non facile sibi credendum existimet». Quatenus autem effari possum, undique me habent angustie in luto carnis et in vinculis mortalitatis mee adhuc aut sedentem aut iacentem; videor tamen - nisi forsan hoc ipsum videri idem ego michi mendaciter fingo - libentissime surrecturus.

Sed ponderibus meis premor, et invaluit in me durum inveterate consuetudinis iugum; a cuius servitute quis liberabit me miserum, nisi Dominus ille qui «solvit compeditos et illuminat cecos»? Fortuna contra me hactenus perpetuum bellum gerit; ego autem, sciens quod comunio discordias parit, ut in pace vivam, nequid comune secum habeam laboro; imperia regna divitias honores ceteraque eiusmodi sua sunt et sibi habeat.

Nichil est horum quod me moveat; michi linquat siqua sunt animi mei bona. Hec sui muneris non fuerunt, et ne sui iuris sint flagito. Quid sevit, quid minatur? nimis diu debitor suus sum; calculum ponamus: auferat que sua sunt, nimis diu depositum eius servo. Quid cogitat? nulla mora est, nullum luctamen, tollat quicquid id est et nunquam reversura discedat. Et certe iam partem non exiguam tulit, et id quantulumcunque quod restat, odiosum honus est humeris ad altiora nitentibus.

Quod ad corpus attinet, non sum quem reliquisti. Hospes corporis mei, secum male concordans, implacabilem litem agit. Hec iugis solicitudo faciem meam mutavit ante annos, ita ut iam vix primo me cognoscas occursu. Huius tamen rei me cura non tangit; adhuc enim integer, Domitiano principi credideram: «Nichil gratius decore, nil brevius». "Ad maiora" vero "genitus" sum, "quam ut sim mancipium corporis mei".

'Seneca' inquis 'hoc dixit'. Quis negat? et ego dico, et multi dicent post me, et ante eum multi forte dixerunt, et quisquis id dixerit, modo ne mentiatur, egregium magnificumque verbum dixerit. Ego et illud dixi, et quod sequitur dicam, et in utroque scio quod non mentior; utinam nec fallar. Absit a me ut amore corporis aut huius lucis desiderio diem mortis horrescam, quoniam et hoc ab alio verissime dictum in usus meos verti, quod hec nostra que dicitur vita, mors est.

 

Vale.

 

Al medesimo, del suo stato presente.

 

Del mio stato presente, di cui mi chiedi, eccoti brevi notizie: sebbene per i veri filosofi uno soltanto sia il vero bene dell'uomo, e non tre; quello cioè che consiste in un animo ben disposto da Dio e capace di nobili azioni - poiché quelli del corpo e della fortuna non s'hanno a chiamare beni, ma piuttosto comodità e sostegni di poco conto -, tuttavia, volendo tu d'ogni cosa essere informato, appagherò il tuo desiderio.

Come stia l'animo mio, né so né tocca a me dirlo. «lo debbo», come dice Agostino, «piangere su queste tenebre, in cui si nasconde quella facoltà che è in me, sicché l'anima mia, interrogandosi, non sa se può prestar fede a se stessa».

Per quel che posso dire, d'ogni parte mi circondano gli affanni, mentre siedo o giaccio nel fango della carne e nel lacci della mia mortale natura; ma tuttavia mi sembra - se pure non è anche questa un'illusione che da me stesso sto immaginando - che potrò con mia gran gioia risollevarmi.

Ma sono oppresso da questi miei pesi, e grava su me il duro giogo delle vecchie abitudini; dalle quali chi libererà me infelice, se non quel Dio, che «libera gli schiavi e illumina i ciechi »?

La fortuna finora mi ha fatto guerra, e io, ben sapendo che la comunione genera discordia, per vivere in pace, cerco di non aver con essa nulla di comune; gl'imperi, i regni, le ricchezze, gli onori e tutte le altre cose di tal genere, son roba sua; e se le tenga. Nessuna di essa mi attira; basta che mi lasci i beni dell'animo, se qualcuno ne ho.

Questi non le appartengono, e prego Dio che non vengano in suo potere. Perché infierisce contro di me, perché mi minaccia? Da troppo tempo io sono suo debitore; facciamo i conti: si riprenda quel che è suo, è un pezzo che fo da custode al suo deposito.

Che ha in mente? non esiterò, non lotterò: riprenda tutto e se ne vada per non più tornare. Del resto, mi ha già ripreso, e quel poco che resta è per me un peso odioso alle mie spalle che cercano di risollevarsi.

Per quel che riguarda il corpo, non son più quello che tu lasciasti.

L'ospite che è nel mio corpo, con esso male accordandosi, è con lui in perpetua lite; e questa continua sollecitudine ha anzi tempo mutato il mio aspetto, tanto che tu difficilmente mi riconosceresti alla prima. Ma di questo non mi curo; quando ero nel pieno delle mie forze, credevo a quelle parole di Domiziano: «Nulla è più gradito, nulla è più breve della bellezza». A qualche cosa di meglio io son nato che ad essere schiavo del mio corpo. 'Questa', tu dici, 'è una sentenza di Seneca'. Chi lo nega? Ma così dico anch'io, e molti diranno dopo di me, e probabilmente dissero prima di lui; e chiunque lo dica, purché non mentisca, dice una bella e grande parola.

Questo io dunque dico; e anche un'altre. cosa - e so di non mentire - così possa anche non ingannarmi: mai non avvenga che per amore del corpo o per desiderio di questa vita io tema il giorno della morte; poiché anche un'altra sentenza ho fatta mia: che questa. che si chiama vita, è morte.

 

Addio.