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lettera (V, 16)      a Guidone

 

Scritta nel 1336-1340

da luogo imprecisato

 

Lettera inviata a Guidone arcidiacono di Genova, scusando il suo silenzio.

 

(V, 16)  Ad Guidonem Septem archidyaconum Ianuensem, excusatio silentii.

 

 

Epystolam sub tuo nomine descriptam perdidi. Hoc michi et nuntii longior expectatio et sotiorum preceps favor attulit; qui dum assiduo novarum rerum desiderio et, ut Solini verbo utar, “impatientibus potius quam studiosius” per bibliothecam meam more solito vagantes in illam incidissent, legerunt et tulerunt ignorante me; veriti, ut asserunt, ne - sicut, amicis indignantibus et incuriositatem meam damnantibus, michi plerunque contigerat - illius etiam periret exemplum.

Ego, re cognita, ut michi redderetur instabam, illi autem festinabant. Quid te moror? verum est quod ait quidam:

male cunta ministrat Impetus.

Dum enim omnes habere cupiunt, nullus habuit; dumque omnium consensu uni scribenda traditur, ille eam omnium cum dolore vel amisit vel amisisse simulavit; qualiter nescio, nisi quod ad oculos meos ultra non rediit.

Unum fatebor, nec erubescam testimonium tuum: nunquam credidissem quod res ulla tam parva tam magne michi foret perturbationis causa. Raro unquam alias fragilitatem meam sic evidenter agnovi; torquebar enim et per multos dies noctesque perditam querebam simul et querebar, et nunc temerariam sotiorum fidutiam nunc levitatem meam increpabam, illis exprobrans quod plus equo stilum hunc mirantes, importune agerent, michi quod immaturam gloriam e primitiis studiorum querens, amicis fierem fortassis asperior.

Quantalibet sane plaga animi tempore mitigatur; iam dolere desii doloremque pudor expulit; pudet tam graviter doluisse. Nunc quoniam illius nulle michi reliquie supersunt preter "amantem memoriam", ut ait Augustinus, perierit quidem illa, sed calamo superstite. Interim ego, dum revertor ad solitum scribendi morem, intermissionis causam tibi notam esse volui, ne insueto silentio movereris.

 

Vale.

 

A Guido Sette, arcidiacono di Genova, scusando il suo silenzio.

 

 

Ho perduto una lettera che ti avevo scritto.

Ciò è avvenuto e per la lunga attesa del messo e per la troppa inframettenza degli amici; i quali, mentre, per il gran desiderio di trovar cose nuove, frugavano secondo il solito nella biblioteca «mossi più da impazienza che da premura», come dice Solino, la videro, la lessero e se la portarono via senza dirmi nulla; temendo, come dicono, che anche quell'unico esemplare andasse smarrito, come purtroppo mi è accaduto più volte, tra lo sdegno degli amici che mi rimproveravano di trascuratezza.

Io, saputa la cosa, chiesi che me la restituissero, ed essi si affrettarono a cercarla. Che più?

È proprio vero quel che ha detto un poeta: Nulla la fretta mai condusse a bene. Sicché, mentre tutti volevano averla, nessuno l'ebbe; essa, di comune consenso, fu consegnata a uno di loro, perché la copiasse, e quegli con dolore di tutti o la smarrì o finse d'averla smarrita; come, io non so; ma sta di fatto che non tornò più da me.

Questo ti dirò, e non mi vergogno che tu lo, sappia: non avrei mai creduto che una cosa così piccola mi turbasse tanto.

Di rado mi è accaduto di avere una così chiara prova della mia fragilità; mi rodevo, e per molti giorni e notti la cercavo, lagnandomi ora della temeraria libertà degli amici ora della mia leggerezza, a loro rimproverando d'essersi mostrati così importuni per la troppa ammirazione del mio stile, a me di essermi mostrato forse troppo avaro coi miei amici, sperando una gloria immatura dalle primizie dei miei studi. Ma ogni pur grande ferita si risana col tempo; già ho cessato di lamentarmi, e la vergogna ha cacciato il dolore, che mi spiace di aver provato così forte.

Ora, poiché di esso più non mi resta che l'amorosa memoria, come dice Agostino, vada essa in malora, purché mi rimanga la penna.

Ad ogni modo, mentre torno al mio solito costume di scriverti, voglio che ti sia nota la causa di questa mia interruzione, perché tu non abbia a meravigliarti del mio insolito silenzio.

 

Addio.