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Percorso : HOME > Scriptorium > Petrarca: Familiares > Lettera XXIV, 6lettera (XXIV, 6) a Marco Varrone
Scritta il 1 novembre 1350
da Roma
Marco Terenzio Varrone nacque a Rieti (o in alta Sabina) nel 116 a.C. A Roma compì studi avanzati presso i migliori maestri del tempo: tra gli altri, studi di grammatica presso Lucio Elio Stilone Preconino. A differenza di molti altri eruditi del tempo non si ritirò dalla vita politica ma anzi vi prese parte attivamente. Allo scoppio della guerra civile nel 49 a.C. fu propretore in Spagna. Morì quasi novantenne nel 27 a.C. dopo aver scritto oltre 620 libri suddivisi in circa settanta opere.
(XXIV, 6) Eo Marcum Varronem
Franciscus Marco Varroni salutem, Ut te amem ac venerer tua me singularis virtus et industria, tuum me clarissimum nomen cogit. Sunt quos beneficiis ac amamus; qui scilicet, ceteris conspectu et odore graviter offendentibus, ipsi doctrinis instruunt exemplisque delectant, quique licet hinc abierint "in comunem locum" ut ait Plautus, tamen absentes prosunt presentibus. Tu nichil aut modicum prodes, non tua quidem sed omnia corrumpentis evi culpa. Etas nosra libros tuos perdidit: quidni autemi unius numorum custodie studiosa? quis usquam invise rei custos bonus fuit? Tu notitie rerum supra fidem deditus, non ideo actuose vitae semitam declinasti, utroque calle conspicuus, et illis summis viris Magno Pompeio ac Iulio Cesari merito tuo carus. Itaque sub altero militasti, ad alterum scripsit libros mirabiles omnisque discipline refertissimos, inter bellorum et publicorum munerum diversissimas curas; Magna laus non ingenii modo sed propositi, in acto perpetuo corpus simul atque animum habere, et posse et velle non etati tue tantum sed omnibus seculis prodesse. Hi tanto studio elaborati libri digni non sunt habiti qui per manus nostras ad posteros pervenirent; ardorem tuum nostra vicit ignavia; nemo tam parcus pater unquam fuit, cuius non longevam parsimoniam brevi tempore luxuriosus filius posset evertere. Quid nunc libros perditos enumerem? quot librorum tuorum nomina, totidem fame nostre sunt vulnera; prestat igitur siluisse, nam et contrectatione vulnus recrudescit et sopitus dolor damni memoria excitatur. Sed o incredibilis fame vis, vivit nomen sepultis operibus, et cum de Varrone prope nichil appareat, doctorum tamen omnium consensu doctissimus Varro est, quod "sine ulla dubitatione" Marcus Cicero his ipsis in libris in quibus nichil affitmandum disputat, affirmare non timuit, ut quodammodo luce tui nominis prestingente oculos, videatur interim dum de te loquitur, suum principale propositum non vidise. Quod Ciceronis testimonium quidam latinitatis angustiis includunt, apud quos Romanorum doctissimi nomen habes, alii ad Grecorum metas extendunt, precipueque Lactantius, vir ex nostris eloquentia et religione clarissimus, qui nullum Varrone doctiorem ne apud Grecos quidem vixisse non dubitat. Sed inter innumerabiles precones tuos famosissimi duo sunt: primus est ille cuius supra mentionem feci, coetaneus et concivis et condiscipulus tuus, Cicero, qui multa tibi et cui tu in multa, servata ex Catonis precepto ratione otii, scripsisti, cuius ut vivaciora sint opera, stili forsitan dulcedo prestitit; secundus vir quidam sanctissimus et divino ingenio, Augustinus, origine afer eloquio romanus, cum quo utinam de libris divina tractantibus deliberare potuisses, magnus nempe theologus futurus, qui eam quam poteras theologiam tam scrupulose tractasti, tam anxie divisisti. Ut vero rerum tuarum nichil ignores, quamvis ita de te scriptum sit, legisse te "tam multa ut aliquid tibi scribere vacasse mitemur, tam multa scripsisse quam multa vix quenquam lege potuisse credamus", nulle tamen extant seu admodum lacere tuorum operum reliquie, e quibus aliqua pridem vidi, et recordatione torqueor summis, ut aiunt, labiis gustare dulcedinis, et ea ipsa, precipue divinarum et humanarum rerum libros, qui nomen tibi sonantius peperere, adhuc alicubi latitare suspicor; eaque multos iam per annos me fatigat cura, quoniam longa et solicita spe nichil est importunius. Tu vero solare animum, et laboris egregii fructum ex conscientia percipiens, mortalia periisse ne doleas; sciebas peritura dum scriberes: mortali enim ingenio nichil efficitur immortale. Quid autem refert an statim an post centum annorum millia pereat quod aliquando perire est necesse? Est quidem illustris simili studio flagrantium cohors haudquaquam fortunatior laborum, quibus exemplis utcunque sortem tuam equanimius ferre debes. Ex his nunc aliquos iuvatl attingere, quoniam clarorum nominum vel sola commemoratio dulcis est. Sunt autem hi: Marcus Cato Censorius, Publius Nigidius, Antonius Gnipho, Iulius Hyginus, Ateius Capito, Gaius Bassus, Veratius Pontificalis, Octavius Hersennius, Cornelius Balbus, Massurius Sabinus, Servius Sulpitius, Cloatius Verus, Gaius Flaccus, Pompeius Festus, Cassius Emina, Fabius Pictor, Statius Tullianus, multique alii quos enumerare longum est, olim clari viri nunc cinis ambiguus et preter primos dous vix cognita nomina; quos omnes meis verbis tuo ore salutatos velim. Iulium et Augustus Cesares et aiiquot alios ex illo ordine, quamvis studiosissimos atque doctissimos teque nonnullis horum familiarissimum sciam, equius tamen extimo nostris imperatoribus salutandos linquere, si tamen hos non illorum pudet, quorum studio ac virtute fundatum imperium everterunt. Eternum vale, vir vigilantissime. Apud superos, in capite orbis Roma, que tua fuit et mea patria facta est, Kalendis Novembris anno ab ortu Eius quem utinam novisses, MCCCL.
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(XXIV, 6) A Marco Varrone
Francesco saluta Marco Varrone. Ad amarti e a venerarti mi costringono la tua singolar virtù e diligenza e il tuo nome illustre. Vi sono alcuni che noi amiamo per i loro meriti e le loro benemerenze; e son coloro che, mentre gli altri ci offendono la vista e l'odorato, ci ammaestrano con la loro dottrina e giovano con l'esempio, e se anche se ne vanno "nella comune dimora", come dice Plauto, tuttavia anche assenti ci sono utili. Tu purtroppo non ci giovi né punto né poco, non per tua colpa ma per colpa del tempo che tutto distrugge. L'età nostra ha perduto i tuoi libri; qual se essa non sa custodire se non il denaro ? Chi fu mai buon custode di cosa aborrita ? Tutto dedito alle dotte ricerche, non per questo tu disdegnasti la vita attiva e fosti meritatamente caro a quei grandi uomini che furono Pompeo Magno e Giulio Cesare: sotto il primo tu militasti, all'altro dedicasti libri mirabili, pieni di profonda dottrina: occupazioni tra loro ben diverse, in mezzo alle guerre e gli offici pubblici. Gran lode non solo d'ingegno ma di carattere, l'aver sempre tenuto in azione il corpo e lo spirito, e aver potuto e voluto giovare non alla tua sola età ma a tutti i secoli. I tuoi libri composti con tanto studio non furono creduti degni di passare ai posteri attraverso le nostre mani; la nostra fiacchezza fu più grande della tua solerzia; nessun padre fu così parco, che un figlio prodigo non potesse in breve tempo dar fondo al suo patrimonio a lungo e parsimoniosamente accumulato. A che enumererò i tuoi libri perduti ? quanti sono i titoli delle tue opere, altrettanto sono le ferite fatte alla nostra gloria; meglio è dunque tacere; poiché col toccarla s'inasprisce la piaga, e col ricordo del danno rinasce il dolore sopito. Ma - oh, incredibile forza della fama! - vive il tuo nome anche se le opere son morte, e se quasi nulla rimane di Varrone, tuttavia per consenso di tutti i dotti dottissimo è Varrone; questo non esitò ad affermare senza esitazione Marco Tullio Cicerone, in quegli stessi libri nei quali insegna che nulla si deve affermare, come se, abbagliandogli gli occhi lo splendore del tuo nome, egli non veda, mentre parla di te, il suo proposito. Questa testimonianza di Cicerone alcuni la restringono alle lettere latine, e ti considerano il più dotto dei Romani, altri la estendono alle greche; primo tra gli altri Lattanzio, uomo per eloquenza e religione chiarissimo, che afferma che neppure presso i Greci visse uomo più dotto di Varrone. Tra i molti tuoi ammiratori due sono i più famosi: primo quegli di cui sopra ho parlato, tuo coetaneo e condiscepolo, Cicerone, col quale avesti molta e frequente corrispondenza se si tiene conto, secondo il precetto di Catone, della disponibilità del tempo, e che se scrisse opere più durature ti cedé, forse per dolcezza di stile; l'altro un uomo santo e d'ingegno quasi divino, Agostino, africano d'origine ma romano per eloquenza, col quale se avessi potuto consigliarti intorno ai tuoi libri sulle cose divine, saresti riuscito un gran teologo, come si vede dallo scrupolo con cui trattasti e dalla cura con cui dividesti in parti quella teologia di cui potevi aver notizia. Ma perché nulla ti sia ignoto delle cose tue, sebbene sia stato detto di te che "tanto leggesti da far meraviglia che ti rimanesse tempo per scrivere e tanto scrivesti quanto altri a mala pena riuscirebbe a scrivere", pochi o scarsi sopravvivono i resti delle tue opere; alcuni io ho potuto conoscere e mi tormenta il ricordo di un diletto gustato a fior di labbro. ma le opere stesse, quella specialmente sulle cose divine e umane, che ti diedero maggior fama, io credo che siano ancora nascoste in qualche luogo; questo pensiero mi tormenta da anni, perché nulla è più importuno di una speranza lunga e affannosa. Ma tu consolati, e cogliendo col pensiero il frutto della tua egregia fatica, non dolerti che cose mortali siano perite; sapevi, mentre le scrivevi, che dovevano morire; poiché un ingegno mortale non può crear nulla d'immortale. Che importa che ciò che è destinato a perire, perisca oggi o tra centomila anni? Grande è la schiera di studiosi come te le cui opere non ebbero maggior fortuna, e il loro esempio ti aiuterà a sopportar di buon animo la tua sorte. Di costoro mi giova nominare alcuni, poiché dolce è anche il ricordare illustri nomi. Eccoli: Marco Catone il Censore, Publio Nigidio, Antonio Gnifone, Giulio Igino, Ateio Capitone, Caio Basso, Verazio Pontificale, Ottavio Ersennio, Cornelio Balbo, Massurio Sabino, Servio Sulpicio, Cloazio Vero, Caio Flacco, Pompeo Festo, Cassio Emina, Fabio Pittore, Stazio Tulliano, e molti altri che sarebbe troppo lungo enumerare, un giorno illustri, oggi polvere informe e nomi quasi ignoti, salvo i primi due; tutti costoro vorrei che tu salutassi per me. Quanto a Giulio Cesare, ad Augusto e qualche altro della loro schiera, sebbene io sappia che furono dottissimi e studiosissimi e alcuni a te familiari, credo più giusto mandar loro un saluto per mezzo degli imperatori dell'età nostra, se pure non hanno vergogna di aver distrutto quell'impero che si costituì grazie alla loro diligenza e alla loro virtù. Addio per sempre, o uomo diligentissimo.
Dal mondo dei vivi, in Roma capo del mondo, che fu tua ed è divenuta mia patria, il 1° di novembre dell'anno 1350 dalla nascita di Colui che vorrei tu avessi conosciuto. |